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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2011 alle ore 06:39.

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Trent'anni fa, nel febbraio 1982, la battaglia di Hama tra le truppe speciali di Hafez Assad e i Fratelli Musulmani si concluse con 30mila morti e i cannoni sbriciolarono anche i famosi mulini ad acqua sull'Oronte. Il massacro si svolse nella più completa indifferenza, la repressione dei fondamentalisti veniva silenziosamente approvata dall'Occidente, in Siria come nella Libia di Gheddafi o nell'Iraq di Saddam.
La visita, venerdì scorso, degli ambasciatori americano e francese nella città di Hama, epicentro della rivolta cominciata a metà marzo contro Bashar Assad, l'erede di Hafez, era destinata ineluttabilmente a diventare un caso esplosivo. Come conseguenza immediata ha avuto ieri un caotico assalto dei fedelissimi di Assad alle sedi diplomatiche a Damasco di Francia e Stati Uniti. I lealisti hanno fatto irruzione nell'ambasciata americana e tentato di attaccare anche quella francese dove tre agenti di Parigi, che avevano reagito sparando in aria, sono stati feriti. La versione del dipartimento di Stato racconta che i dimostranti si sono arrampicati sul muro di cinta senza però penetrare nel compound, respinti con difficoltà dalle forze di sicurezza siriane, il cui intervento è stato comunque definito dagli americani «lento e inefficiente». Graffiti sui muri hanno definito l'ambasciatore Robert Ford «cane», secondo alcune testimonianze.
Non era bastato al regime che il giorno prima gli ambasciatori fossero convocati e ammoniti per essersi recati nel cuore della rivolta senza il permesso della autorità. Si è dato quindi via libera anche alla piazza, secondo uno stile ben oliato nelle dittature mediorientali quanto si tratta di esercitare pressioni sulle legazioni straniere. Ma questa volta i siriani hanno perso le staffe.
Il video sulla visita dell'ambasciatore Ford ad Hama ha invaso i canali di internet anche in Siria: l'auto di Ford è stata accolta da una folla festante, euforica, che agitava ramoscelli di ulivo e scandiva slogan contro Assad. Non si era mai visto niente di simile nella Siria contemporanea: un rappresentate americano portato in trionfo nel Paese arabo guida del "fronte del rifiuto" a Israele e agli Stati Uniti. Una sorta di colpo di mano che forse un giorno entrerà nei libri di storia.
Ma la "beffa di Hama" è stata soltanto una delle ragioni che ha scatenato la reazione. I siriani sono infuriati con gli americani che nelle riunioni dell'opposizione, anche in quella tenuta qualche settimana fa in Turchia, hanno fatto circolare dei documenti destinati a indirizzare le trattative con Damasco. Questi negoziati con l'opposizione, lungamente annunciati e iniziati domenica, sono stati disertati dai gruppi locali della resistenza che non hanno intenzione di seguire la road map presentata dal vicepresidente Farouk al-Shara, ex ministro degli Esteri, vecchia volpe della politica mediorientale e colonna portante del sistema.
Nell'Hotel Sahara, sede del negoziato, si sono dunque presentati 200 delegati, in gran parte membri del partito Baath. In base all'articolo otto della costituzione i due terzi dei 250 seggi del Majlis al-Shaab, il Parlamento, sono assegnati al Baath e ai suoi alleati. Farouk al-Shara ha parlato di elezioni democratiche e di cambiamenti, restando però nel vago e con toni soffici, quasi vellutati. L'impressione è che quello siriano sia uno di quei regimi che non si riformano neppure a parole.
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