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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2011 alle ore 08:16.

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PALERMO - La data dell'udienza è ancora da decidere così come il giudice che dovrà pronunciarsi, ma un fatto sembra scontato: il ministro per le Politiche agricole Saverio Romano potrebbe essere rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa. Il condizionale è d'obbligo anche se è difficile che le cose possano andare diversamente. Poiché se è vero che l'accusa ha in un primo momento sostenuto che non vi fossero elementi per arrivare a un processo chiedendone l'archiviazione (la seconda in 8 anni), dopo gli approfondimenti chiesti dal gip Giuliano Castiglia con un'ordinanza di 100 pagine e alla luce degli elementi individuati dal gip, i pm non si sottrarranno e porteranno avanti la richiesta di processare il ministro. Come del resto sembra chiaro dalla richiesta di rinvio a giudizio depositata ieri nella quale De Francisci e Di Matteo affermano che l'esponente del Pid «avrebbe messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo, contribuendo alla realizzazione del programma criminoso dell'organizzazione tendente all'acquisizione di poteri di influenza sull'operato di organismi politici e amministrativi».

Castiglia, che ha disposto l'imputazione coatta, ha letto a lungo gli atti del processo all'ex presidente della regione siciliana Totò Cuffaro, poi condannato per mafia a 7 anni e oggi in carcere. E ha ritenuto che vi fossero elementi di prova «spendibili in dibattimento» sulla base di parecchie intercettazioni ambientali, soprattutto tra il boss di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro e l'altro medico Mimmo Miceli, poi assessore al comune di Palermo in quota Udc e infine arrestato, processato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Romano si sarebbe speso per candidare Mimmo Miceli alle regionali sulla spinta di Guttadauro. La storia dei rapporti di Romano con la mafia comincia nel 1991: in quell'anno Romano partecipò a un incontro con Cuffaro e il ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra Angelo Siino finalizzato al sostegno elettorale dell'ex governatore siciliano.

Per i magistrati Romano era a conoscenza della «caratura» criminale di Siino. C'è poi il pranzo nel marzo del 2001 a Roma con Francesco Campanella, ex presidente del Consiglio comunale di Villabate, vicino alla cosca dei Mandalà: l'uomo che procurò la carta d'identità a Provenzano. In quell'occasione, racconta Campanella, oggi pentito, Romano avrebbe sottolineato che loro due facevano parte della stessa «famiglia», intendendo, la «famiglia» mafiosa. E ancora, Romano avrebbe ricevuto sempre da Campanella la richiesta di sostenere la candidatura di Giuseppe Acanto, uomo vicino al clan di Villabate, nella lista del Biancofiore alle regionali del 2001 e sarebbe stato a conoscenza che l'allora presidente del Consiglio comunale era «uomo d'onore» e che Acanto fosse sostenuto dalla mafia. Sul piano processuale Romano potrebbe chiedere il giudizio abbreviato e nel caso di assoluzione la Dda non potrebbe riaprire il caso nemmeno in presenza di nuovi elementi. Stizzito il commento del ministro: «C'è un corto circuito istituzionale e giudiziario che riguarda chi da un lato ha condotto le indagini e chi dall'altro le ha severamente sanzionate». E poi ha aggiunto: «Sono vittima di una ritorsione politica, per aver salvato con il mio voto, il 14 dicembre, insieme ad altri deputati, la maggioranza e il governo». Cioè per aver dato il sostegno al governo di Silvio Berlusconi. Per il presidente della Camera Gianfranco Fini, «la permanenza di Saverio Romano, come di Papa e Milanese, al governo non è un problema di incompatibilità ma di opportunità». La replica: «Lui ha favorito i propri familiari».
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