Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2011 alle ore 08:04.

My24

Domanda: con i costi fissi, personale in testa, in continua crescita, e il Fondo di finanziamento oggetto al centro di epiche lotte annuali fra Governo e rettori per evitare tagli troppo consistenti, come si fa a quadrare i conti?

La risposta è quasi scontata, e consiste nel chiedere più soldi agli studenti. È il racconto sintetico di quello che è avvenuto nell'università italiana negli ultimi anni, e che numeri alla mano mostra cifre consistenti, in qualche caso clamorose: fra 2005 e 2010 i contributi medi pagati da ogni studente negli atenei, statali e non, sono cresciuti del 38,3%, e solo nell'ultimo anno l'aumento è stato dell'8,7%, dai 1.024,5 euro chiesti in media a ogni iscritto nel 2009 ai 1.113,6 pretesi nel 2010. In qualche caso, le cifre scritte nei bilanci dello scorso anno, gli ultimi disponibili, segnano una vera e propria esplosione rispetto a quelle contabilizzate solo 12 mesi prima: a Catania l'aumento complessivo è stato del 51%, a Ferrara del 42%, alla Federico II di Napoli del 39,6%, mentre entrate più leggere si incontrano in pochi casi come a Potenza (-22%), alla Suor Orsola di Napoli (-18,8%) o Palermo (-10%). In diminuzione generale, invece, il fondo integrativo per il diritto allo studio, sceso quest'anno a poco più di 100 milioni di euro.

La risposta disegnata da questa pioggia di numeri, che misura il peso drasticamente crescente sostenuto da studenti e famiglie per mandare avanti la macchina accademica, è semplice ma contro le norme: l'ordinamento universitario, sulla carta, prevede ancora che gli atenei statali non possano chiedere agli iscritti una somma che supera il 20% del finanziamento statale. Ma a guardare i dati del 2010 è l'intero sistema a essere fuorilegge. Gli studenti hanno messo mano al portafoglio per versare ai propri atenei statali 2 miliardi tondi (2.003 milioni, per la precisione), e l'assegno ministeriale si è fermato a quota 6,9 miliardi: il rapporto fra le due cifre è del 29 per cento, cioè 9 punti sopra rispetto al tetto che sarebbe fissato dalla legge. In particolare, sono 34 università su 61 a superare il limite, e in sette casi (Urbino, Bergamo, Venezia, Varese, e a Milano Politecnico, Statale e Bicocca) gli studenti portano in ateneo una somma superiore al 30 per cento del fondo ordinario.

Leggendo i bilanci, insomma, pare che i conti accademici poggino su un accordo tacito: gli atenei sforano il tetto di legge, e il ministero non controlla per evitare di dover trovare nelle casse statali le risorse aggiuntive necessarie a non far saltare il sistema. L'abolizione del limite di legge ai contributi studenteschi, anacronistico se confrontato con i dati reali, è uno degli ingredienti classici nelle proposte di riforma dell'economia accademica (lo hanno ripreso anche Perotti e Zingales nel «decalogo draconiano» per il pareggio di bilancio pubblicato sul Sole 24 Ore del 13 luglio e l'editoriale pubblicato sabato scorso), e servirebbe a evitare che la fiscalità generale, pagata anche da chi all'università non ha mai messo piede, serva a pagare una quota dei servizi utilizzati dagli studenti, figli di famiglie mediamente più benestanti rispetto al dato complessivo della popolazione. Più che superare la regola 'in silenzio', però, sarebbe il caso di pensare a una riforma complessiva, che introduca una progressività vera nelle tasse universitarie e infittisca i controlli nei confronti di chi dichiara solo il giusto per finire negli scaglioni di reddito più bassi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi