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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2011 alle ore 08:10.

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«Entravo dalla porta sul retro di Downing Street anche ai tempi di Gordon Brown». Nel giorno in cui più «si sente avvilito» nella sua lunga vita di tycoon dei due mondi, Rupert Murdoch camicia bianca e rughe profonde, ha la forza di un colpo di coda. Un commento buttato lì per ricordare ai membri della Commissione Cultura dei Comuni che «lo volevano tutti (i premier n.d.r) anche se avrebbe preferito tanto restare da solo».

La sua deposizione nel primo confronto ufficiale sul caso che scuote l'Inghilterra e fa tremare il governo di David Cameron, è durata tre ore, alternata da quella del figlio minore, James, e inframmezzata da un piatto di schiuma bianca che un solitario dimostrante è riuscito a stampargli in faccia. Come sia arrivato fin lì prima di andarsene steso, o quasi, da un sinistro di Wendi, giovane e affascinante signora Murdoch, è un altro mistero di questa giornata che consegna una messe di interrogativi e poche risposte. Rupert Murdoch ha parlato del suo shock e della sua vergogna per le intercettazioni, procedure «inaccettabili e imperdonabili», ma si è chiamato fuori dalla mischia. La colpa è «delle persone a cui mi sono affidato o delle persone a cui essi si sono affidati…paghino loro». Dimissioni? «No - ha replicato - ora devo mettere ordine in questo caos».

Cadono così, per voce del protagonista, i sussurri del Wall Street Journal, incrociatore della maison Murdoch, che suggerivano la maturata volontà dell'imprenditore di lasciare la guida operativa di un colosso, NewsCorp, che occupa più di 50mila persone. E proprio la taglia del suo impero editoriale è servita a Rupert Murdoch per giustificarsi. Sollecitato con domande incalzanti dal deputato laburista Tom Watson, uno dei grandi artefici dell'inchiesta sui metodi adottato dal News of the World, l'anziano tycoon ha replicato: «Forse ho perso di vista il domenicale. Era meno dell'1% del mio business globale». La tesi di padre e figlio è stata ben modulata, con il primo che dava la linea e il secondo che cercava di rispondere con qualche dettaglio in più. Pochi in verità. La linea di difesa continua a essere sempre la stessa. Delle intercettazioni illegali - vanno sostenendo - hanno saputo solo nel 2010 quando sono emerse le prime liti giudiziarie con le vittime. Prima di allora c'erano stati casi limitati.

A corredo della tesi Rupert, James e il gruppo intero continua ad affidarsi al report dello studio legale Harbottle & Lewis che aveva condotto un'inchiesta concludendo che fino al 2007 c'erano stati sporadici episodi di intercettazioni telefoniche (per i quali due cronisti erano anche finiti in carcere). In altre parole che le procedure illecite dei giornalisti non fossero state un'eccezione, ma fossero la norma, Rupert e James Murdoch lo avrebbero scoperto solo nel 2010. E i mille indizi che suggeriscono il contrario? A tutte le contestazioni, ieri, padre e figlio, hanno opposto un rosario di "non so" e "non ricordo". Amnesie e impedimenti burocratici dettati da pratiche aziendali, per così dire, che difficilmente potranno resistere al vaglio di un'indagine giudiziaria.

Dopo Rupert e James e dopo il siparietto con schiuma in faccia è apparsa in aula Rebekah Brooks, ex direttore del News ed ex ceo di tutti i quotidiani britannici del gruppo. Ha riconosciuto di aver utilizzato detective privati «secondo la pratica di Fleet Street», ma ha aggiunto che quando è emerso il sospetto di "intercettazioni" la società ha agito con decisione. Ha negato invece di aver pagato direttamente poliziotti per avere informazioni. «Non funziona così - ha spiegato - io approvavo un budget complessivo per il managing editor (supersegretario di redazione n.d.r.) che poi ne disponeva». E così, anche lei, si è chiamata fuori in una catena di manager apparsi totalmente deresponsabilizzati. Troppo, francamente, per apparire credibili. All'esame credibilità oggi è atteso l'attore principale, il primo ministro David Cameron. Appena rientrato dal viaggio in Africa andrà a Westminster dove lo attende un grilling. Dolorosa pratica locale che rende l'idea di un passaggio ad alto rischio sui carboni ardenti delle domande parlamentari.

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