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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2011 alle ore 06:38.

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Sembra un mistero. Il Giappone ha un debito pubblico pari al 230% del Pil (l'Italia del 120%), la sua esposizione aumenta più rapidamente, e la sua crescita è altrettanto anemica. È il nostro Paese, però, a subire le turbolenze dei mercati. Il tema è allora importante: siamo di fronte a un errore del mercato o i presunti "speculatori" hanno un giudizio più articolato di quanto si pensi? Possiamo, insomma, fidarci delle quotazioni?
Un'analisi di Barclays ha mostrato che i mercati hanno ragione. Se i decennali italiani rendono il 5,73% e quelli giapponesi l'1,08%, c'è più di un motivo. Michael Gavin e Piero Ghezzi sono giunti a questa conclusione dopo aver ben valutato i "vantaggi" dell'Italia, il livello e la durata del debito netto, e il gioco dei tassi reali (più elevati ma su un debito inferiore).
Il primo problema è la crescita: in entrambi i Paesi è bassa, ma l'Italia, spiegano, dovrà affrontare "venti contrari" più forti. Per due motivi: il freno alla domanda domestica del ciclo dei prezzi delle case (un incremento del 63% seguito da un calo del 7%); e il saldo dei conti con l'estero, in peggioramento da 15 anni (il Giappone è in surplus). Quest'ultimo "squilibrio", e la moneta comune, imporranno un periodo «potenzialmente doloroso» durante il quale prezzi e salari cresceranno più lentamente che in Eurolandia; i tassi reali saranno quindi più elevati, anche «rispetto agli ultimi anni»; e la crescita più lenta.
La differenza cruciale è quindi nei rapporti dei due Paesi con l'estero. Anche grazie al surplus e all'eccesso di risparmio, il Giappone ha, fuori dei confini, assets netti pari al 50% del Pil, l'Italia debiti netti per il 25%. I titoli di Tokyo sono quindi un "porto sicuro" per gli investitori giapponesi, che possono acquistarli quando i mercati internazionali diventano più rischiosi. Nel nostro Paese non è più così: dal 2008 i BTp «tendono a calare quando i mercati azionari globali calano», una correlazione sfavorevole per i risparmiatori avversi al rischio, che impone un aumento dei rendimenti chiesti dagli investitori.
È allora più facile, per i titoli emessi da Tokyo, resistere alle turbolenze. Anche perché solo il 4% del debito pubblico giapponese è in mani straniere, contro il 44% di quello italiano (e mancano i dati sull'indebitamento "nuovo"). In sè questo livello conta fino a un certo punto: la Germania è al 53%, la Francia al 67%, l'Olanda al 70% e, in fondo, anche i giapponesi potrebbero ritirare la fiducia al loro Governo. «Per il momento, però, sembra ancora una fonte di stabilità per i mercati dei bond» del Sol Levante.
Meno importanti sono altri fattori. La politica monetaria autonoma, a Tokyo, «non è riuscita a creare una forte crescita con il deprezzamento della valuta o altri canali»; ma le permette di «tenere i tassi a livelli molto bassi per tutto il tempo» necessario. Non capiterà mai al Governo di Tokyo, quindi, di ritrovarsi «senza soldi»; a quello di Roma potrebbe accadere.
Sul fronte delle istituzioni, il Giappone appare inoltre in vantaggio nelle statistiche internazionali per stabilità politica, efficienza, rispetto del "governo della legge" e corruzione. A pesare tanto sono stati però i piani di salvataggio e ristrutturazione europei, chiamati le «macchine da default»: dopo la Grecia, e in vista di Portogallo e Irlanda, «non è stato irragionevole, allora, attribuire improvvisamente una probabilità più elevata anche a eventuali ristrutturazioni di Spagna e Italia». Il recente accordo ha forse modificato un po' gli scenari, ma il mercato, e i due analisti, hanno sospeso il giudizio. E i rendimenti sono rimasti alti.
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