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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2011 alle ore 06:38.

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di Sergio Benedetto La parola «merito» compare tredici volte nella legge di riforma dell'università del ministro Gelmini approvata il 30 dicembre del 2010 e non vi è dubbio che la riforma punti sul riconoscimento del merito a vari livelli, dalle università che attuano una politica di bilancio virtuosa, ai docenti che hanno ben operato nelle attività di didattica e di ricerca, alle politiche del reclutamento.
Proprio su queste ultime è bene soffermarsi, consapevoli che il reclutamento tramite i concorsi locali ha inferto duri colpi nel recente passato al tessuto accademico, offrendo a una pubblicistica non sempre equilibrata materia per screditare la classe dei professori universitari, e, soprattutto, diffondendo tra i giovani ricercatori una crescente sfiducia nel sistema.
La riforma Gelmini sostituisce ai concorsi locali un sistema di reclutamento in due fasi: una abilitazione scientifica nazionale alle posizioni di professore associato e ordinario, seguita da un concorso locale per l'ammissione nel ruolo. La serietà – anzi, la severità – delle procedure seguite dalle commissioni per l'abilitazione scientifica nazionale costituiranno una fondamentale cartina di tornasole.
L'innovazione forse più importante riguarda le commissioni di abilitazione, prevedendo che i commissari debbano possedere un curriculum scientifico coerente con i criteri e i parametri utilizzati per la valutazione dei candidati. In sostanza, si afferma il principio – sacrosanto – che chi valuta deve possedere almeno lo stesso livello di qualità scientifica richiesto ai candidati per ottenere una valutazione positiva. Perché queste non restino affermazioni di principio, però, occorre occuparsi dei criteri e dei parametri. La neonata Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) ha proposto un criterio valido per tutte le aree scientifiche, che si traduce in valori numerici di parametri adattabili alle diverse realtà dei settori concorsuali. Il criterio è quello quello del superamento della mediana di uno o più indicatori di qualità. Senza entrare in tecnicismi, chi aspira a diventare professore associato (o ordinario) deve possedere uno o più indicatori della qualità scientifica almeno pari a quelli della metà "migliore" dei professori. Per la sua natura intrinseca, questo meccanismo conduce a un lento miglioramento progressivo della qualità scientifica dei docenti. Lo stesso criterio può essere applicati ai candidati commissari, comportando l'esclusione dalla lista di almeno la metà dei professori ordinari di ogni settore concorsuale. Sono dunque giustificate e comprensibili l'ampiezza e la varietà di reazioni suscitate dalla proposta Anvur. Qualcuno ha criticato – non senza sarcasmo – l'esterofilia di «una parte degli intellettuali italiani».
Altre critiche si appuntano sul fatto che gli indicatori di qualità individuati dall'Anvur sono diversi per le scienze "dure" e scienze della vita e per le scienze umane. Il motivo è semplice: mentre per le prime sono disponibili indicatori bibliometrici quantitativi della qualità scientifica (ampiamente condivisi dalla comunità scientifica internazionale e facili da calcolare), per le seconde l'individuazione e il calcolo degli indicatori è più complicato e discutibile.
Si potrebbe dunque, come è già stato fatto in alcuni Paesi, promuovere con le società scientifiche di quelle aree una indagine approfondita tesa a classificare riviste e monografie in classi di qualità, così da arrivare anche nelle scienze umane alla definizione di indicatori quantitativi condivisi della qualità scientifica.
Ovviamente, un tale processo – comunque da avviare – richiede tempo e potrà apportare i suoi benefici nei prossimi anni. Nel presente, invece, bisognerà accontentarsi del "buono", senza attendere "l'ottimo", perché le procedure di abilitazione scientifica nazionale, attese dai ricercatori e dai professori associati, non possono essere differite. D'altra parte, occorre evitare che, utilizzando come cavallo di Troia la presunta impossibilità di definire i criteri misurabili di qualità della produzione scientifica, si ritorni alla situazione precedente nella quale le commissioni di concorso operavano in totale autonomia e, a volte, arbitrarietà. Il documento Anvur propone criteri di semplice applicazione che puntano all'introduzione della meritocrazia nelle procedure di abilitazione operando sui requisiti minimi per i candidati e per i commissari. Non è il decreto ministeriale, ma l'auspicio è che il ministro voglia prenderlo seriamente in considerazione. Esso ha suscitato, come già detto, un'ampia gamma di reazioni, di diverso segno. Non è un caso, probabilmente, che le reazioni più positive siano venute da associazioni di giovani ricercatori e dalle comunità di giovani accademici italiani.
I giovani ricercatori che operano nei nostri atenei e centri di ricerca sono avvezzi all'aria che si respira nelle comunità internazionali, dove la competizione è forte, a volte spietata, ma quasi sempre rispettosa del merito, indipendentemente da fattori quali nazionalità, genere, censo e maestri protettori. Coniugare questo clima con i vizi di inbreeding e di chiusura anche corporativa che sono emersi con frequenza eccessiva nel nostro costume nazionale può condurre a un'assuefazione demotivante.
Questo intervento è una chiamata a tutti coloro (e sono la maggioranza) che vogliono cogliere l'occasione del fermento in atto nel mondo accademico italiano per un impegno rinnovato e per tradurlo in una esplosione di meritocrazia, che sia di esempio per tutta la società e mostri che investire nella ricerca e nella formazione è la via maestra per lo sviluppo.

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