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Questo articolo è stato pubblicato il 02 agosto 2011 alle ore 06:45.

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Per i problemi insolubili c'è sempre un comitato. Come era prevedibile la spinosa questione del debito americano è stata affidata a un comitato di sei senatori e sei deputati, bipartisan. Affronteranno non il tetto legale, per ora risolto in qualche modo, ma la ben più difficile sostenibilità di medio termine dei conti pubblici. Mezza America con i Tea party in vigile vedetta vuole punire Washington tagliando le spese. L'altra mezza America non vuole intaccare lo stato sociale - pensioni pubbliche, sanità per anziani e meno abbienti - e chiede (giustamente) più tasse per i ricchi che negli Stati Uniti ne pagano poche. Ma comunque non basterebbe.
In mezzo c'è Barack Obama, chiaramente incapace di convincere abbastanza americani delle sue buone ragioni, e che sul nodo del debito rischia di pagare alcuni errori di fondo commessi già prima di insediarsi alla Casa Bianca. La sua migliore speranza è che prima del voto del novembre 2012 la mezza America che vuole punire Washington incominci a sospettare che così facendo rischia di punire anche se stessa.
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I repubblicani hanno vinto perché di tagli per ora si tratta e non di aumento del gettito. Il presidente ha - forse - evitato che la scadenza del prossimo round cadesse in piena campagna elettorale 2012. La scadenza cadrà comunque a fine novembre, mentre già è in moto la macchina elettorale che entra a pieno regime alle primarie del prossimo gennaio. Se i dodici "saggi" (o Supercongresso come viene chiamato) avranno allora un compromesso accettabile da tutti, bene. Altrimenti saremo, tetto legale a parte per qualche tempo, al punto di partenza.
A Obama sono stati rivolti in queste ore molti rimproveri e i più significativi vengono da chi nel 2008 lo ha sostenuto. Il primo è di non aver esercitato meglio la leadership e anticipato i tempi rivolgendosi già in primavera al popolo americano dichiarando l'urgenza di agire sul debito, spiegando meglio che le sue proporzioni abnormi sono prima di tutto responsabilità storica dei repubblicani, Reagan e Bush figlio in particolare. Ma la storia non sempre fa politica. Sono in molti sul fronte progressista che, con il Nobel Paul Krugman, ritengono sarebbe stato saggio legare almeno nel dicembre scorso l'estensione per due anni dei tagli fiscali di Bush junior - chiesta a gran voce dai repubblicani e su cui la Casa Bianca alla fine cedeva - a un innalzamento preventivo del tetto del debito. Ma una serie di passaggi concettuali e di posizionamenti politici discutibili, ripercorribili a ritroso, spiega perché non è stato fatto.
Il clan Obama pensava che, lasciando più liquidità, la proroga alle riduzioni fiscali avrebbe rappresentato l'ultima spinta verso la ripresa, che a molti sembrava esserci a cavallo fra 2010 e 2011. Ma chi aveva assimilato per tempo la lezione storico-statistica elaborata dagli ora citatissimi Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, e che indica in almeno 7-10 anni il tempo necessario per assorbire un colpo finanziario della portata di quello del 2007-2008, moderava l'ottimismo. Il clan Obama ha quasi sempre sottovalutato la portata della crisi prima di tutto perché così ha fatto e fa Wall Street, che l'ha disinvoltamente archiviata non come fatto di eccezionale virulenza, cosa che avrebbe costretto a esaminare davvero errori e responsabilità, ma come una delle periodiche crisi finanziarie. Di quelle che capitano ogni decennio, come ha detto un anno e mezzo fa Jamie Dimon di Jp Morgan alla commissione d'inchiesta istituita dal Congresso e presieduta da Phil Angelides. E il clan Obama, che è poi il vecchio clan Clinton nella cui pelle Obama si è calato dopo aver sbaragliato da sinistra Hillary, ha rapporti speciali con Wall Street, da cui direttamente o meno ha tratto e trae ancora oggi tutti o quasi gli uomini-chiave dell'economia.
Ma sottovalutare le conseguenze della crisi, per affermare ad esempio che il salvataggio del sistema «è costato pochissimo», come fa spesso il ministro del Tesoro Tim Geithner soffermandosi sulla sola Tarp (il programma di aiuti diretti alle banche, in gran parte recuperato), e come ha fatto lo stesso Obama, impedisce poi di parlare agli americani dei numeri veri del debito, che sono assai più pesanti dei quasi 14mila e 500 miliardi del debito federale ufficiale. Washington, per evitare una fuga dal dollaro e salvare la propria credibilità, fu costretta il 7 settembre 2008 a garantire l'intero sistema della finanza immobiliare semipubblica, da allora pubblica e oggi con 5.500 miliardi di asset e 1.700 di obbligazioni collocate in tutto il mondo, un gigante finanziario malconcio, e di dimensioni senza confronti.
Poiché tutto pesa sui libri federali, anche se non risulta e Washington non lo dice, i repubblicani e i "tagliatori di teste" del Tea party alla fine hanno vinto questa prima tornata. Al comitato decidere la resa dei conti. E fra poco più di un anno, si vota.
Mario Margiocco
mmargiocco@gmail.com

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