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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2011 alle ore 08:18.

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La stampa ufficiale cinese, voce di un potere cinico e pragmatico, mette subito il dito nella piaga: «Rovesciare il regime di Gheddafi è uno spettacolo per i giornali, lo è meno discutere della ricostruzione. Però spetta all'Occidente mettere fine al disordine che è stato creato in Libia». Pechino, come al solito, parla la lingua degli interessi economici (una cinquantina di progetti per un valore di oltre 13 miliardi, 36mila lavoratori cinesi, forniture petrolifere), i quali guardano più alla sicurezza e alla stabilità che ai diritti umani.

Alla Cina andava bene anche Gheddafi, fino a quando era in grado di far funzionare il Paese. Eppure Pechino ha ragione nel richiamare subito l'attenzione sul dopo-Gheddafi, che si presenta tutt'altro che semplice. In Tunisia e in Egitto c'erano movimenti di opposizione interna strutturati, dirigenti politici di rilievo, c'erano le istituzioni. E ci sono state rivolte popolari che non hanno visto la partecipazione attiva della comunità internazionale.
Nulla di tutto questo in Libia. In 42 anni di dittatura familiare non è stato costruito praticamente nulla che assomigli a un Paese moderno: niente istituzioni, niente opposizione, persino niente tasse. Nel Consiglio nazionale di transizione (Cnt) ci sono monarchici, islamici radicali, ex seguaci del Colonnello e rappresentanti del complesso, variegato e rissoso mondo tribale. L'economista Jean-Yves Moisseron, esperto dell'area, stima che in Libia ci siano 140 tribù, 30 delle quali importanti e una decina con il potere che deriva dal controllo delle zone petrolifere.
E poi ci sono stati sei mesi di guerra civile, con la partecipazione militare dell'Occidente.

Rimettere ordine in tutto questo non sarà né facile né rapido. Il 3 agosto il Cnt ha preparato una "dichiarazione costituzionale" che prevede la formazione di un Governo provvisorio e dopo sei mesi libere elezioni.
Ma sembra una prospettiva ottimistica. Basti ricordare che lo stesso Cnt non è riuscito a nominare un nuovo Governo dopo lo scioglimento del precedente (di cui resta solo un premier senza esecutivo, Mahmoud Jibril) a seguito dell'uccisione misteriosa del capo militare degli insorti Abdel Fatah Younis, ex ministro dell'Interno di Gheddafi. Il meno che ci si possa aspettare è una lunga scia di violenze e vendette, di regolamenti di conti e di sanguinosa conquista di posizioni di potere.
Non a caso il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, nell'annunciare per domani o venerdì un vertice, ha invitato il leader del Cnt Mustafa Abdel Jalil a lavorare in una logica di «riconciliazione, in nome dell'unità nazionale», anch'essa a rischio. E la Nato, per bocca del ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, ha comunicato che la campagna militare proseguirà fino a quando la sicurezza non sarà garantita.

Del futuro prossimo in Libia hanno ieri parlato lungamente Nicolas Sarkozy, che per primo ha spinto per un intervento militare e riconosciuto la legittimità del Cnt, e Barack Obama. «I due presidenti - si legge nella nota diffusa dall'Eliseo - hanno riaffermato la volontà di aiutare il popolo libico a intraprendere il processo di transizione politica in uno spirito di riconciliazione e di unità nazionale, avendo come obiettivo la costruzione di una Libia nuova, democratica e pluralista». E proprio a Parigi dovrebbe tenersi la prossima settimana una conferenza internazionale di sostegno al Paese, in cui decidere quali passi concreti è opportuno fare per evitare che la vittoria di oggi assomigli a quella precipitosamente annunciata da Georges Bush nel 2003 dopo la caduta di Saddam Hussein.

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