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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2011 alle ore 08:21.

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I pozzi petroliferi della Libia non sono stati bersaglio di bombardamenti, come quelli del Kuwait ai tempi della guerra con l'Iraq. E alcuni esponenti del Consiglio nazionale di transizione si sono mostrati ben disposti nei confronti dell'Italia, rassicurandola sulla tenuta dei contratti siglati dall'Eni durante il regime di Muammar Gheddafi.

Sullo stato di salute dell'industria petrolifera libica e degli interessi italiani nel Paese le certezze non abbondano. Tuttavia – mentre i combattimenti proseguono e a Tripoli i ribelli non sono ancora riusciti a stanare Gheddafi – qualche spiraglio su come potrà delinearsi il futuro nel settore degli idrocarburi si sta lentamente aprendo.
Silvio Berlusconi domani incontrerà a Milano Mahmoud Jibril, leader del comitato esecutivo del Consiglio nazionale di transizione libico. All'ordine del giorno, c'è da scommetterlo, ci sarà il futuro delle intense relazioni non solo politiche, ma anche economiche, che Roma ha costruito nel corso degli anni con Tripoli. Hafed Gaddur, rappresentante dei ribelli libici nel nostro Paese, ha assicurato che «gli accordi siglati tra Italia e Libia sono nell'interesse delle popolazioni e degli Stati di entrambi, dunque tutti i contratti saranno confermati».

L'Eni in particolare – che ha rinnovato di recente i contratti con la Libia, per una durata fino al 2042 nel caso del petrolio e fino al 2047 nel caso del gas – aveva ricevuto analoghe aperture da parte dell'Arabian Gulf Oil Company (Agoco), compagnia petrolifera che fa capo ai ribelli e che potrebbe essere destinata ad assumere un ruolo più ampio nel dopoguerra, soppiantando la "vecchia" National Oil Company (Noc), rimasta fedele a Gheddafi. Il portavoce della società, Abdeljalil Mayuf, ha citato espressamente gli italiani (oltre a francesi, britannici e statunitensi) tra i partner favoriti nel settore petrolifero, mentre Tripoli non avrebbe altrettanto piacere nel fare affari con Cina, Russia, India, Brasile e in generale con tutti i Paesi che non hanno appoggiato l'intervento Nato. Una presa di posizione che ha subito allarmato Pechino: «Speriamo che la Libia contrinui a proteggere gli interessi e i diritti degli investitori cinesi», ha dichiarato Wen Zhongliang, dirigente del ministero del Commercio.

In realtà gli analisti ritengono che quasi sicuramente ci sarà una fase di rinegoziato dei contratti relativi al petrolio e al gas libici. E le compagnie petrolifere di mezzo mondo stanno probabilmente già lavorando dietro le quinte per ottenere una fetta più grande della torta, magari proprio a scapito dell'Eni. In fondo, appena un anno fa Berlusconi abbracciava Gheddafi come uno dei migliori «amici» dell'Italia. Il nostro Governo ha esitato a lungo prima di schierarsi a fianco della Nato. E lo scorso marzo Paolo Scaroni, ceo dell'Eni, aveva invocato la fine delle sanzioni contro Tripoli. Tra quanti aspirano a un ruolo più rilevante ci sono la francese Total, già ben introdotta nel Paese, le britanniche Bp e Shell, impegnate finora soltanto in attività esplorative, ma anche le imprese del Qatar e la società di trading Vitol, accorse in aiuto dei ribelli per commercializzare il poco greggio che è riuscito a varcare le frontiere dopo l'inizio dei combattimenti.

Un'eventuale rinegoziazione dei contratti è tuttavia ancora ben lontana. Non è nemmeno chiaro chi governerà in Libia, dopo la definitiva caduta di Gheddafi. Né si intravvede il momento in cui le condizioni di sicurezza miglioreranno al punto da consentire una ripresa delle attività estrattive.
È presto addirittura per avere una stima dei danni. Anche se il Consiglio nazionale di transizione sta cominciando a fare l'appello delle infrastrutture su cui possono contare per riattivare in fretta almeno una parte della produzione di gas e petrolio, un tempo fonte del 40% delle entrate statali. Il quadro purtroppo non appare del tutto incoraggiante.
L'Agoco, una volta tranquillizzatasi la situazione, è in grado di riavviare nel giro di 2-3 settimane i giacimenti di Sarir e Mesla, nell'Est del Paese, colpiti in aprile dalle forze di Gheddafi, ma già riparati e in grado di produrre circa 250mila barili al giorno.

Uno dei primi obiettivi è far ripartire le cinque raffinerie del Paese, per soddisfare il fabbisogno interno di carburanti: l'impianto di Zawiya, alle porte di Tripoli, sarà il primo a rientrare in funzione perché è rimasto intatto. Seguiranno le raffinerie di Tobruk e di Ras Lanuf, importante terminal petrolifero, ormai saldamente in mano ai ribelli. Purtroppo però le condizioni dei giacimenti non appaiono buone. «L'Agoco controlla circa 700 pozzi – riferisce il portavoce Mayuf – e tutti hanno bisogno di riparazioni». Quanto agli altri operatori, «nessuno ha ancora potuto fare una valutazione accurata dei giacimenti. Le condizioni di sicurezza sono ancora un problema».

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