Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2011 alle ore 06:39.

My24


ROMA
Nella vicenda libica l'Italia cerca faticosamente e ormai fuori tempo massimo di recuperare credibilità agli occhi del Consiglio nazionale di transizione dopo mesi di zig-zag politico assai poco apprezzato da Bengasi e Tripoli ma guardato con diffidenza anche a Washington e Parigi. Ci sono regole non scritte sui tempi e i modi che servono per aiutare le rivolte in fieri che abbiamo quasi totalmente disatteso, incuranti delle conseguenze che ciò avrebbe avuto sul futuro delle relazioni politiche e ancora di più economiche con la nuova leadership libica.
Nel rogo che i lealisti di Gheddafi hanno appiccato, mesi fa, all'ambasciata italiana a Tripoli non sono andate in fumo solo le preziose gouaches napoletane dell'800 che l'ex ambasciatore, Vincenzo Schioppa, aveva lasciato imprudentemente appese alle pareti della sua residenza. Quella distruzione (così come il precedente rogo del consolato di Bengasi nel 2006 per la maglietta anti-Islam di Calderoli) segna anche il fallimento della nostra politica estera postcoloniale con la Libia, l'incapacità di gestire in maniera coerente ed efficace il dialogo con un vicino ingombrante.
Ecco perché, al di là delle belle parole e dei sorrisi di facciata, il risultato dell'incontro di questa mattina in Prefettura a Milano tra il premier Silvio Berlusconi e il numero due del Cnt, Mahmud Jibril, sembra quasi scritto in anticipo.
Innanzi tutto le modalità della visita. La prima capitale europea cui ha reso omaggio Jibril non è stata l'Italia ma Parigi perché è nella Francia di Sarkozy (e nell'America di Obama) che siedono i veri vincitori di questa guerra di logoramento al regime del Rais e a loro, per primi, spetta il dividendo della pace.
Certo, lo ha ripetuto fino alla noia anche il capo degli insorti Jalil: nulla cambierà nei rapporti economici con l'Italia, nei contratti con l'Eni, nell'applicazione dell'accordo di amicizia. Nessun ripensamento per i 3,6 miliardi di euro investiti in Unicredit, Eni, Finmeccanica, e gli altri 3 di depositi (un miliardo solo nel gruppo Unicredit).
Ma il problema non sta qui. Non oggi ma tre, quattro mesi mesi fa i ribelli avevano bisogno di noi. Del nostro appoggio politico, dei nostri aerei che si alzavano insieme agli altri dell'alleanza atlantica, ma anche di soldi cash per le prime esigenze, i farmaci, i generi di prima necessità, forse anche le armi.
Emissari del Cnt bussarono alle porte dei più grandi istituti di credito italiani. Chiesero prima 250 milioni di euro, poi si sarebbero accontentati di 180 milioni garantiti dall'enorme massa di depositi e investimenti finanziari congelati.
La dirigenza di quei gruppi era anche pronta a pagare direttamente il Cnt (o indirettamente i fornitori di farmaci e generi alimentari) ma chiedevano, come tutte le banche del mondo, che lo Stato italiano si accollasse il rischio dell'operazione nel caso in cui il Cnt non avesse fatto fronte ai suoi impegni.
Ebbene, l'atto in questione non sarebbe mai arrivato sulla scrivania del ministro dell'Economia Giulio Tremonti tanto era scontato il suo diniego. Tutto questo Jibril lo sa. Lo ha già fatto pagare declassando l'Italia a seconda tappa dopo Parigi.
Forse lo farà direttamente anche oggi ricordando che, per certe cose, «non è mai troppo tardi» e che segni di buona volontà anche se tardivi «sono sempre ben accetti» anche se ora il prezzo sale e il Cnt già sta chiedendo una anticipo di 2,5 miliardi di dollari sugli asset congelati nel mondo (circa 130 miliardi di dollari).
Certo, va anche dato atto che l'Italia qualcosa ha tentato di fare. Le operazioni della nostra intelligence (d'intesa con gli uomini dell'Eni) che hanno portato in Italia prima il ministro del petrolio, Ghanem e, più recentemente, l'ex-numero due di Gheddafi fino agli anni 90, Jallud (per sponsorizzarlo ai vertici della nuova dirigenza libica) sono stati condotti con eccezionale professionalità e discrezione meritando il plauso della comunità dell'intelligence che lavora da mesi con forze speciali e addestratori in Libia. Si tratta di americani, francesi, inglesi e polacchi.
Ma è sempre poco rispetto a quanto un Paese come l'Italia avrebbe dovuto fare per una sua ex-colonia come la Libia.
Il vertice di Parigi sulla Libia concordato con una telefonata tra Sarkozy e Obama ci ha tagliati fuori dal gioco. E dov'è l'Italia che dovrebbe negoziare insieme a Francia e Regno Unito una nuova bozza di risoluzione per sbloccare i fondi del clan Gheddafi congelati nelle banche di tutto il mondo?
L'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni ha detto che «i nostri rapporti con il Cnt sono speciali» e che «siamo legati in modo indissolubile con la Libia». In realtà i veri vincitori di questa guerra che è politica ma anche energetica non stanno in Italia e neppure in Francia, semmai in Qatar che è stato tra i primi a dare soldi cash al Cnt ed è a Doha che ha sede il fondo del Cnt e la sua televisione.
Ed è nella sfera di influenza degli emirati e dell'Arabia Saudita che potrebbe cadere la Libia di domani. Una Libia dove le monarchie del Golfo vedrebbero bene un nuovo ruolo dei Senussi la confraternita religiosa diventata monarchia con re Idris.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Shopping24

Dai nostri archivi