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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2011 alle ore 07:38.

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ROMA. Alla fine tutti si dicono «soddisfatti»: il premier e il segretario del Pdl Alfano, Bossi e i suoi colonnelli e anche Giulio Tremonti. Silvio Berlusconi lo champagne l'aveva già in frigo, convinto di poter raggiungere anche stavolta «la quadra» con Bossi. L'ostacolo – se così si può definire – semmai era rappresentato da Tremonti. Il principale obiettivo del premier era cancellare il contributo di solidarietà, quel prelievo sui redditi alti che qualcuno era già pronto a ribattezzare «tassa Berlusconi». Troppo per chi si è fatto vanto per tre lustri di non aver mai «messo le mani nelle tasche degli italiani».

Berlusconi non ci ha girato attorno. Ha detto che il contributo di solidarietà andava cancellato. C'è chi sostiene che avrebbe addirittura fatto balenare l'ipotesi delle dimissioni, qualora si fosse insistito su questa strada. Ha dovuto convincere Tremonti ma anche la Lega. Né Maroni né Calderoli erano infatti propensi ad accontentarlo. Non sono mancati i momenti di tensione. Ma alla fine Berlusconi l'ha spuntata. Poco importa che ancora non si capisca da cosa sarà compensato il mancato gettito del contributo di solidarietà e che, non solo nell'opposizione ma anche nella maggioranza e nello stesso governo, c'è chi ritiene che si «dovrà per forza trovare altrove la copertura». Il comunicato finale garantisce che le modifiche sono «a saldi invariati» e per il momento può bastare.

Un'affermazione che serve anzitutto a rassicurare i mercati ma a rischio «verifica» tant'è che dal nuovo vertice convocato per domani con l'opposizione (alla quale il documento di Arcore apre) potrebbe arrivare qualcosa di nuovo.

Ad aiutare il premier è stata certamente anche la platea numerosa per un vertice ad Arcore, solitamente circoscritto a pochi intimi. E invece ieri a sostenere il Cavaliere nel duello con Giulio e anche con i colonnelli Lumbard erano in parecchi. Non solo il segretario del partito Angelino Alfano, ma anche i capigruppo di Camera e Senato, l'avvocato del premier Niccolò Ghedini, il presidente dei Responsabili Silvano Moffa, il relatore della manovra Antonio Azzolini e il ministro del Turismo Michela Brambilla, ultima a lasciare Villa San Martino. Sull'Iva a tenere duro è stato invece Tremonti, anche se con la complicità indiretta di tutti i presenti, visto che nessuno se la sentiva di essere messo all'indice per un incremento che, per quanto modesto, avrebbe toccato comunque le tasche di tutti gli italiani. C'è poi il capitolo previdenza. Bossi l'aveva escluso dalla trattativa. Alla fine ha fatto capolino grazie alla mediazione messa in atto dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi con il quale si era visto Calderoli nei giorni scorsi. Il mancato conteggio, ai fini dell'anzianità previdenziale, degli anni riscattati per il servizio militare e la laurea sono il "prezzo" pagato dal Senatur alla causa del compromesso raggiunto. Poca roba. Almeno per ora. Il capitolo più spinoso resta invece quello dei tagli agli enti locali. Nel primo pomeriggio Roberto Maroni ha dovuto abbandonare la riunione per l'incontro programmato con i sindaci che protestavano contro la riduzione delle risorse. Un capitolo che non è concluso e che vede tra i più agguerriti proprio i primi cittadini del Carroccio. La riduzione di un paio di miliardi dei tagli, assieme alle risorse recuperate dall'evasione fiscale non accontentano sindaci e governatori. «Questa manovra va azzerata», dichiara Gianni Alemanno che non è solo il sindaco di Roma ma anche uno dei massimi dirigenti del Pdl.

In queste partite di dare/avere va computata anche la decisione – peraltro già annunciata – dello stralcio dell'articolo sulle province. È stato deciso di abolirle tutte con un disegno di legge costituzionale che, naturalmente, ha tempi assai più lunghi e incerti di quelli di un decreto legge. Lo stesso dicasi per il provvedimento che dovrà prevedere il dimezzamento dei parlamentari.

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