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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2011 alle ore 15:20.

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Nicolas SarkozyNicolas Sarkozy

Chi ha vinto davvero in Libia non lo sappiamo ancora. Forse, dopo sei mesi di guerra, non possiamo neppure dire che conosciamo meglio questo Paese. Gheddafi è ancora latitante e molte delle facce libiche familiari alla diplomazia internazionale che adesso rappresentano il Governo transitorio, come il presidente Jalil, spariranno presto dalla circolazione per loro stessa ammissione. «Un successo militare non è una vittoria», diceva qualche giorno fa Mikhail Margelov, l'inviato russo per l'Africa, un arabista, che Putin ha spedito oggi alla conferenza di Parigi con l'intento di ripetere agli occidentali il monito di una Mosca assai delusa.

La tentazione di individuare nella foto di gruppo di Parigi le facce di vincitori e vinti, come se fosse una partita di Champions League, è una tentazione troppo forte ma anche fuorviante.
Certo il primo posto è occupato dal padrone di casa, il presidente francese Nicolas Sarkozy, che appare come il pettoruto trionfatore della vicenda. Colto di sorpresa dalla rivolta in Tunisia, costata il posto al ministro degli Esteri Alliot-Marie, ha trascinato Stati Uniti e Gran Bretagna ottenendo con la risoluzione 1973 all'Onu la copertura all'intervento aereo della Nato.

Da qui è arrivato il primo messaggio, quello più geopolitico: l'Occidente atlantico, rimasto spettatore della Primavera araba in Tunisia ed Egitto mentre crollavano alleati storici, si propone ora come il guardiano del Mediterraneo e dei processi di transizione. Dopo la Libia saprà riconfermarsi o deciderà caso per caso? Ci sono despoti come Gheddafi che si possono bombardare e altri, come Assad, che la fanno franca.

Gli Stati Uniti in Libia sono partiti all'attacco lancia in resta ma dopo un paio di settimane hanno deciso di tenere i caccia a terra. L'America si è limitata a guidare l'azione dietro le quinte, atteggiamento accorto ma che ha prolungato le operazioni. Le strutture Nato hanno mostrato la corda: mancava persino il carburante per gli aerei.
Gli inglesi non hanno brillato in apparenza per protagonismo ma potrebbero venire fuori alla distanza quando si tratterà di giocare duro per le concessioni petrolifere. I loro legami con il vecchio regime e le oscure trattative su Lockerbie con Moussa Koussa ne limitano un po' l'azione ma si sono acquisiti dei meriti schierando le forze speciali a fianco degli insorti.

L'outsider, la sorpresa, è stato il Qatar: ha partecipato ai bombardamenti ma più delle sue cannoniere è stata efficace la tv al-Jazeera che con i suoi reportage da Doha, a volte anche troppo disinvolti, non lascia scampo ad autocrati e dittatori arabi. Dal primo momento della rivolta di Bengasi è stata al-Jazeera a costruire la trama narrativa di questo conflitto. Nel dopoguerra avranno un'influenza anche gli egiziani, che hanno sostenuto il Cnt di Bengasi, e pure i tunisini ai quali va il voto più alto: nell'accoglienza dei profughi hanno dimostrato uno spirito umanitario commovente e straordinario. Non meritano un ruolo da eterni e oscuri mediani.

Tra i perdenti tutti mettono Germania, Russia e Cina.
Il caso tedesco è interessante perché la Germania nei momenti topici assume posizioni defilate, di disimpegno, come ha fatto del resto nel corso della crisi finanziaria. In realtà è agitata da spinte contrapposte che il cancelliere Angela Merkel non governa appieno: tanto è vero che secondo "Der Spiegel" sarà costretta a far fuori il ministro degli Esteri. Ma Sarkozy, che si prepara a incassare i dividendi della vittoria, intende concedere ai tedeschi una via di uscita onorevole: senza Berlino il futuro dell'Europa, politico ed economico, è assai incerto. A una conferenza come quella di Parigi non si può tenere la Germania seduta su uno strapuntino.

A Mosca, che rinuncerà a contratti importanti nel settore bellico, e a Pechino, protesa alla penetrazione economica in Africa, sanno di avere perso una partita ma forse non erano neppure interessati a giocarla fino in fondo: la Libia non vale l'Est europeo, l'Asia centrale e neppure il Tibet. Su altri terreni tenteranno la rivincita geopolitica con gli occidentali.
Perdono nettamente gli africani alleati di Gheddafi e pure l'Unione africana che ha visto naufragare i tentativi di mediazione tra il regime e la Nato. Diverso è il caso dell'Algeria, che ha accolto la famiglia Gheddafi: gli algerini, con 200mila morti nelle violenze islamiche degli anni 90, che hanno affrontato da soli, non accettano lezioni da nessuno. Anche Sarkozy maneggia con cura la scottante questione algerina, un'antologia di memorie coloniali sanguinose e di ferite ancora aperte.

La prestazione dell'Italia è quella più complessa da interpretare. L'alleato occidentale più stretto del Colonnello, con il quale il presidente del Consiglio aveva un filo diretto, è stato colto in un clamoroso contropiede, con la difesa sguarnita, a porta vuota, incapace dall'inizio della crisi di esercitare pressioni su Tripoli o di intervenire con un'azione di mediazione. Abbiamo dimostrato antichi difetti della nostra politica estera aggravati dalla dipendenza energetica e dalla mancanza di programmi a lungo termine. L'intervento a fianco della Nato, spinto dal presidente della Repubblica, ci ha fatto acciuffare un pareggio che oggi vorremmo trasformare in una vittoria. E anche questo è un vecchio vizio che non ci abbandona mai.

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