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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2011 alle ore 17:24.

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Anna ProuseAnna Prouse

Anna Prouse ha vissuto otto anni in Iraq, prima al lavoro per la Croce Rossa, poi notata dal governo americano che nel 2006 suggerisce il suo nome al ministero degli Esteri italiano per guidare la ricostruzione della provincia di Nassirya. Quattro anni e mezzo di coprifuoco, impossibilità di muoversi da sola, contrattazioni con i capi tribù che la costringono a inventarsi il «Complaint Day», giorno dedicato ai signori locali per esporre richieste e lamentele di vario tipo. Nel 2009 Giorgio Napolitano premia la milanese Prouse per la «capacità di gestione e relazione, che le consentono di rendere la struttura di Nassirya, nell'ambito della rete di Provincial Reconstruction Team, uno dei più efficaci supporti all'opera di ricostruzione civile e democratica dell'Iraq».

L'italiana adottata dagli americani, ora alle prese con la burocrazia di Washington per il nuovo lavoro alla Caerus Associates come consulente di Usaid e dipartimento di Stato americano, sta per andare in Libia ma ricorda i viaggi rocamboleschi per raggiungere Bassora e le notti trascorse nelle baracche militari irachene: «Lo scorso giugno sono tornata in quella città con un aereo civile e ho dormito in un hotel senza scorta: tutto questo, sei anni fa, era impensabile - dice al Sole.com -. Dal 2006 ho assistito a una lenta ma soddisfacente ripresa, la gente ora è per le strade, riempie coffee house e ristoranti, normalità straordinaria raramente raccontata come gli attentati. Quello che ancora manca è la capacity building, capacità degli impreditori e operatori iracheni di lavorare con i colleghi stranieri che vogliono investire nel Paese. Ai tempi di Saddam Hussein, si pensava bastasse un hotel di lusso, un'ottima cena e una suite con le scale di marmo per convincere un investitore. Non ci si rende ancora conto che le cose sono cambiate. L'imprenditore straniero vuole meno forma e più business plan, cosa che ancora gli iracheni non sanno fare».

Prouse conosce bene anche l'Egitto e la Libia dove ritornerà tra poco inviata dal suo datore di lavoro americano. La sua conoscenza del Medio Oriente è preziosa, ancora più la capacità di riconoscere similitudini e differenze fra l'Iraq liberato da Saddam e la Libia che aspetta la cattura di Gheddafi per voltare pagina. «Anche se non paragonerei i due raìs - spiega Prouse - perché Saddam terrorizzava letteralmente gli iracheni, gli attribuivano perfino poteri magici». «Premesso che la situazione in questo momento è ancora pericolosa e caotica, la prima differenza che vedo è nella leadership: la classe dirigente del dopo Saddam, come al Maliki e Allawi, era estranea agli iracheni perché reduce da vent'anni di esilio. La leadership libica del post Gheddafi sarà invece probabilmente composta da personalità che non hanno mai lasciato il Paese. Non credo che in Libia al contrario che in Iraq vi sarà una ricostruzione da Ground Zero. Vedremo solo aziende che tornano a lavorare: per farlo occorre però capire quale sarà il nuovo regime legale, è necessaria un'analisi dei rischi che in Iraq non è stato possibile fare. Credo che ci vorrà almeno un paio di mesi per rientrare. Aiuterà la diversa mentalità: prima del 2003, l'iracheno non aveva mai visto uno straniero; il libico allo straniero è abituato. Detto ciò non potranno non esserci problemi, gli imprenditori che torneranno in Libia devono innanzitutto capire chi sono gli interlocutori del Consiglio nazionale provvisorio nel breve e lungo termine».

Prouse è invece abbastanza sicura dell'ostacolo che gli stranieri dovranno affrontare in Libia come in passato in Iraq: il sistema legale parallelo delle tribù e i capi clan. A Nassirya l'italiana capo della ricostruzione capisce subito che il gioco delle signorie e dei veti locali avrebbe minato il suo progetto, ecco dunque che instituisce il Complaint Day e impara a discernere il lamento fine a se stesso dal vero problema, e il fattore tribù, più forte e profondo della distinzione sciiti-sunniti. «Se una lezione si può trarre dall'esperienza irachena, dice Prouse, «è che i clan tolgono potere e legittimazione al governo democraticamente eletto» quindi si deve limitare il loro peso. «Più in generale in Libia è necessaria un'analisi politica, legale e dei media» dice. L'approccio americano non può prescindere dall'indipendence of press: «Si pensa a corsi di formazione per giornalisti sul modello Al Jazeera - spiega Prouse - affinché la storia venga raccontata non solo con occhi occidentali ma anche da cronisti libici, altro know how che in questo momento nel Paese manca».

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