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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2011 alle ore 21:06.

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Nella foto il presidente dell'Autorità palestinese Mahmud Abbas (AFP Photo)Nella foto il presidente dell'Autorità palestinese Mahmud Abbas (AFP Photo)

È come una nave sulla cui tolda ogni marinaio vede perfettamente i pericoli: il vento sfavorevole, il mare tempestoso, gli scogli verso i quali andrà a sbattere. Tutti sanno che il vascello affonderà e tutti sanno come evitarlo. Ciononostante nessuno ha intenzione di fare la sua parte per impedire il naufragio. Negli ultimi 60 anni di conflitto non è la prima volta che israeliani e palestinesi fanno, sapendolo, il contrario di ciò che serve a una pace. Piuttosto, è la norma.

Il nuovo capitolo di questa storia sempre uguale si svolgerà - sembra - il 23 settembre al palazzo di Vetro di New York, nella sala del Consiglio di Sicurezza. «Alle ore 12.30 il presidente Mahmud Abbas presenterà la domanda», spiega il ministro degli Esteri dell'Autorità palestinese Riyad al-Malki. L'istanza così burocraticamente annunciata è una cosa molto concreta: la richiesta di ammissione come 194^ Stato membro e dunque sovrano delle Nazioni Unite.

Le cose sono andate così in questi mesi, mentre languivano sia il conflitto che il dialogo fra israeliani e palestinesi ma non il resto del Medio Oriente, esploso in una rivolta senza precedenti. Salam Fayyad, il primo ministro dell'Autorità, realizza le condizioni pratiche per l'esistenza di uno Stato: ministeri, burocrazia, ordine pubblico e sicurezza in Cisgiordania (sia per i palestinesi che per gli israeliani); una banca centrale lodata per trasparenza dal governatore di quella israeliana; lavori pubblici, crescita economica. A questo punto il presidente Mahmud Abbas, nom de guérre Abu Mazen, decide di presentare la candidatura all'Onu. Lo fa per due ragioni: perché lo aveva promesso Barack Obama all'assemblea generale dell'anno scorso e perché Bibi Netanyahu e il suo Governo ultra nazionalista rifiutano ogni dialogo seriamente possibile.

Gli israeliani minacciano, gli americani si irritano, gli europei si dividono, il mitico e invisibile Quartetto (Usa, Russia, Ue, Onu) resta invisibile. In realtà non era al riconoscimento Onu che Abu Mazen puntava. Sperava con questa "provocazione" di spingere Israele alla trattativa. Netanyahu al contrario alza il prezzo: all'elenco delle sue condizioni impone anche il riconoscimento della "natura ebraica" dello Stato d'Israele. «Abbiamo già riconosciuto Israele – risponde Abu Mazen – Non spetta a noi dire cosa Israele debba essere». Roger Cohen del New York Times ricorda che «l'insistenza di uno Stato ebraico è assurda: è un potente indicatore della crescente insicurezza, isolamento e intolleranza di Israele. Dieci anni fa non c'era questa insistenza».

I mesi passano e nessuno riesce a spingere israeliani e palestinesi al negoziato. Fra questi ultimi Salam Fayyad e molti altri sono contrari al riconoscimento Onu: «Perché inimicarci gli Stati Uniti?», si chiede il premier. Il regolamento prevede che la domanda sia presentata al Consiglio di sicurezza e approvata all'unanimità: gli Usa hanno sempre garantito di porre il veto. Lo Stato palestinese deve nascere dal negoziato, dicono, fingendo d'ignorare che l'assenza di trattativa dipende anche dalla loro debolezza di mediatori.

Così il vascello naviga verso il grande scoglio di New York. La richiesta palestinese bocciata dal Consiglio di sicurezza può essere avanzata all'Assemblea generale che tuttavia non può dichiarare sovrano uno Stato. A maggioranza di due terzi (129 voti), può solo elevare i palestinesi dall'attuale condizione di "osservatore" a quella di "Stato non membro osservatore". I palestinesi possono ottenerlo: hanno raccolto circa 140 adesioni. Avranno il diritto di essere rappresentati alle agenzie dell'Onu e alla Corte criminale internazionale (è questo che più temono gli israeliani). Ma non diventano il 194^ Stato del mondo. E in ogni caso il giorno dopo il voto all'Assemblea generale la Palestina continuerà a non esistere. Ma ci saranno le colonie, i posti di blocco e l'occupazione israeliana ancora più incattivita: sono state promesse dure ritorsioni.

La vecchia guardia di Fatah incomincia a innamorarsi all'idea dello scontro. I giovani palestinesi scenderanno in strada, l'intera Primavera araba si rivolgerà contro Israele, partecipando alla liberazione della Palestina. È storia vecchia, pericolosa e mai realizzata. Nemmeno i Governi arabi vorrebbero questo scenario. La loro diplomazia lavora per impedire il voto e la propaganda, come al solito, inneggia alla nuova battaglia all'Onu.

L'annuncio apparentemente muscolare del ministro degli Esteri al-Malki va letto nella sua completezza per comprenderne il senso invece disperato: «Vedremo se qualcuno porterà con se una proposta credibile. Altrimenti il 23 settembre, alle 12.30….». I palestinesi continuano a sognare che qualcuno li tiri fuori dal guaio nel quale si sono cacciati con il valido aiuto israeliano, la mediocrità della mediazione americana, l'inconsistenza europea e l'ambiguità araba. Dopo la data del 23, il calendario verso l'affondamento del vascello prevede la presentazione della richiesta palestinese il 27 all'assemblea generale, la discussione e il voto nei primi giorni di ottobre. Poi il Medio Oriente avrà un altro argomento per continuare ad essere un luogo pericoloso.

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