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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2011 alle ore 06:38.

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C'è chi la chiama la svendita del Continente nero. Chi preferisce utilizzare il termine "neo-colonialismo". Chi, infine, ricorre alla definizione più nota: land grabbing, rimarcando l'accaparramento incontrollato delle terre. Qualunque sia la formula, la compravendita di terreni agricoli nelle zone povere del mondo, in prima linea in Africa, è un fenomeno in preoccupante crescita.
Sul banco degli imputati ci sono i Governi locali, non troppo attenti ai diritti delle comunità rurali, colossi internazionali, e Governi stranieri di mezzo mondo. Ma la parte del leone la fanno Cina, Corea del Sud India e i ricchi Paesi del Golfo. I dati sono allarmanti: in un recente rapporto - La nuova corsa all'oro, - Oxfam Italia, insieme ad altre Ong riunite nella Land Matrix Partnership, indica che dal 2001 a oggi almeno 227 milioni di ettari, una superficie pari all'Europa nord-occidentale, sono stati venduti, affittati o sotto negoziato nel mondo. L'espandersi del fenomeno, avverte Oxfam, mette in pericolo le comunità più povere, che perdono case e mezzi di sostentamento senza essere consultate e risarcite. «Non si tratta sempre di land grabbing - spiega Elisa Bacciotti, portavoce di Oxfam Italia che ha seguito il rapporto - ma dietro le acquisizioni si cela spesso questo fenomeno. La scarsa trasparenza e la segretezza che circonda le compravendite di terra rendono difficile calcolare i numeri». Oxfam e i suoi partner sono comunque riusciti ad analizzare 1.100 accordi relativi all'acquisizione di 67 milioni di ettari: il 50% delle compravendite è avvenuto in Africa, e copre un'area pari alla superficie della Germania.
Il trend ha subito un'impennata dal 2008, quando le commodities alimentari accusarono rincari verticali. «I fattori che provocano questo fenomeno - continua Elisa Bacciotti - producono un effetto a catena: la crescente insicurezza alimentare di alcuni Stati, la domanda crescente per i bio-carburanti, la necessità di effettuare investimenti "sicuri" in una risorsa dal sicuro aumento di valore come la terra e il cambiamento climatico che riduce la quantità e la qualità della terra coltivata». Più del 70% di questi accordi riguarda la compravendita a fini agricoli. Gran parte dei prodotti sono poi esportati nei Paesi che hanno acquistato la terra.
Il caso del Qatar è emblematico. Il piccolo stato del Golfo dispone di ingenti fondi derivanti dalla vendita di gas. Ma i terreni fertili rappresentano solo l'1% della sua superficie. L'acquisto di 40mila ettari in Kenya destinati ai cereali, e di terreni in Sudan per grano e riso, seguono questo disegno. Lo stesso vale per il Kuwait, gli Emirati Arabi, l'Arabia. Per conservare le sue scarse risorse idriche, Riad ha preferito affittare terreni agricoli. Come in Tanzania - precisa Oxfam - dove ha siglato un accordo per un affitto (99 anni) di mezzo milione di ettari di terre.
Uno dei Paesi più colpiti dal land grabbing è il neo nato Sudan del Sud, dove tra il 2007 e il 2010 società straniere, Governi e singoli individui hanno preso il controllo di 2,6 milioni di ettari di terreno da destinare ad agricoltura, biofuel e legname. Un'area estesa quanto il Rwanda, che rappresenta il 10% di un Paese in cui la malnutrizione tocca tassi vertiginosi. E che dire dell'Etiopia? Travolta dalla recente crisi alimentare del Corno d'Africa, Addis Abeba sta utilizzando alcune delle sue terre più fertili per concessioni a investitori stranieri e per produrre cereali da esportazione.
«Crescita demografica e cambiamenti nei consumi a livello globale tenderanno a far aumentare i prezzi delle agricultural commodities e quindi le aspettative di guadagno nel settore agricolo», precisa Lorenzo Cotula, dell'International institute for environment and development. Lo sa bene la Cina. Per incrementare la produzione di riso ha comprato nel 2008 107mila ettari di terra in Zimbawe, e ha investito in Mozambico, dove ha trasferito 10mila lavoratori. E le promesse di occupazione? «La creazione di posti di lavoro - conclude Bacciotti - è spesso assente dai contratti. In pratica, non avviene quasi mai».
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