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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2011 alle ore 06:41.

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di Donatella Stasio
Nulla è più assurdo di ciò che non si riesce a capire. E la giustizia italiana - dopo il verdetto su Amanda Knox e Raffaele Sollecito accusati dell'omicidio di Meredith Kercher - sembra a molti uno spettacolo dell'assurdo o del grottesco, una pièce di Eugène Ionesco. Due anni fa, dopo la condanna in primo grado di Amanda e Raffaele, gli Stati uniti gridarono tutta la loro indignazione per il nostro sistema giudiziario; oggi, dopo l'assoluzione, plaudono all'«attenzione» dei giudici. Gli inglesi hanno reagito ovviamente in senso opposto (anche se con maggior senso della misura) e l'opinione pubblica mondiale si è divisa tra innocentisti e colpevolisti. La sentenza non è ancora definitiva, ma la giustizia italiana è già finita sul banco degli imputati, travolta dalle polemiche.
La rappresentazione mediatica della giustizia dovrebbe facilitarne la comprensione ma spesso, invece, confonde e disorienta l'opinione pubblica. Il processo del terzo millennio si offre ormai senza veli allo sguardo mediatico, che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule giudiziarie, dai suoi riti, dai suoi simboli e dalle sue regole. O meglio, si impossessa di riti, simboli e regole del processo e li riproduce con un linguaggio diverso, quello mediatico, appunto. Il voyeur è soddisfatto, il curioso pure, meno il cittadino che vuole farsi un'opinione sulla giustizia. La spettacolarizzazione della realtà processuale insegue spesso verità emotive, diverse da quella storica e processuale, e forma un convincimento collettivo destinato a radicarsi al punto che, se la sentenza non soddisfa le aspettative, si insinua il dubbio - spesso la certezza - che la decisione sia ingiusta. Di più, che l'intero sistema non funzioni.
Solo pochi mesi fa, dopo la vicenda di Dominique Strauss Kahn, la giustizia americana è stata da molti indicata come esempio di giustizia rapida, efficiente, e giusta. Eppure era incorsa - stando almeno alle conclusioni della vicenda - in un clamoroso "errore giudiziario", offrendo alle telecamere di tutto il mondo l'immagine in manette dell'ex direttore del Fondo monetario internazionale accusato di stupro, finito in carcere e poi riconosciuto del tutto estraneo alle accuse. Giustizia rapida, si è detto, capace di correggere subito i propri errori. Non come quella italiana, lenta e fallace. Conclusioni forse eccessive e un po' strabiche.
Il processo Meredith era un processo indiziario, con nessuna prova certa. E, secondo una certa campagna di stampa, non si sarebbe dovuto fare per questo motivo. Ma da qui a sosteere che non sia stato un processo equo ce ne corre e lo dimostra il fatto che in appello, di fronte a nuove prove, i giudici non se la sono sentiti di considerare gli imputati colpevoli «al di là di ogni ragionevole dubbio». Formula attinta proprio dagli ordinamenti anglosassoni, che peraltro rivela i limiti insiti nell'atto di giudicare. Il filosofo Paul Ricoeur scrive che «la saggezza del giudizio si rivela attraverso fragili compromessi non tanto tra il male e il bene, il bianco e il nero, ma tra il grigio e il grigio o, nel caso sommamente tragico, tra il male e il peggio». Amanda e Raffaele hanno avuto l'opportunità di un secondo grado di giudizio per guadagnare l'assoluzione, laddove in altri ordinamenti non sarebbe stato possibile. L'ultima parola spetterà alla Cassazione, ma c'è da star siscuri che, comunque vada, resterà il dubbio che sia stata fatta veramente giustizia.
La verità storica non sempre coincide con quella processuale, ma men che meno con quella mediatica, che ha un palcoscenico e un linguaggio diversi da quelli del processo. Hanna Arendt sosteneva che «giudicare impone di non vedere» perché solo chiudendo gli occhi si diventa spettatori imparziali. Operazione impossibile in un universo saturo di immagini (spesso ritoccate) come il nostro; ma forse utile per cercare di diventare almeno «spettatori imparziali» e non semplici tifosi.
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