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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2011 alle ore 07:39.

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ROMA - L'aria che tira è da ultima spieggia. Silvio Berlusconi si prepara ad evitare l'ondata che potrebbe tirarlo giù da Palazzo Chigi. L'obiettivo è resistere fino a dopo Natale, rendere impraticabile l'ipotesi di un esecutivo alternativo al suo e al quale più di qualcuno, anche nel Pdl, sta lavorando. «Un passo indietro? Mi fanno ridere...» è la replica secca del Cavaliere, che ha bisogno di prendere tempo ed evitare i trappoloni di cui la strada è disseminata. Il rinvio del decreto sviluppo, così come la scelta del futuro governatore della Banca d'Italia ne sono la conferma. Berlusconi teme l'incidente. Certo non lo confortano le affermazioni di Umberto Bossi, tornato ieri a sponsorizzare un ritorno anticipato alle urne. E neppure quel riferimento del Capo dello Stato al governo Pella, un governo di «tregua» che pur durando poco – ha ricordato Napolitano – fu utile al Paese.
Ecco perché il premier ieri è tornato a farsi «concavo e convesso». Dopo un rapido consiglio dei ministri si è presentato alla Camera a braccetto di Tremonti, con il quale si è intrattenuto volutamente alla buvette per far sapere a tutti che «con Giulio c'è assoluta concordia» e chi dice il contrario racconta «favole». I due si sono parlati a più riprese, anche alla presenza di Bossi e di vari ministri pronti a marciare contro l'artefice di quei 6 miliardi di tagli ai loro dicasteri.

Berlusconi avverte che attorno a lui ormai sono sempre più numerosi coloro che – anche tra i fedelisssimi – non sono più così integralisti nella sua difesa e che – come diceva ieri sera Gianfranco Fini – nei corridoi dei Palazzi auspicano «un passo indietro» del Cavaliere. Soprattutto dopo aver lasciato balenare la possibilità di una sua lista. Berlusconi la butta in caciara (come si usa dire nella Capitale): «Il nome più di successo sarebbe Forza gnocca!». È un vecchio trucco quello di far aprire la bocca in un sorriso, per addolcire il boccone amaro da infilarci dentro: la tregua forzata con Tremonti. Berlusconi sa di non poter tirare troppo la corda. Al momento è solo Pisanu a chiedere pubblicamente un altro governo; Scajola si agita ma si trattiene («non mi tradirà vedrete», assicura il Cavaliere).

Ma l'aria resta pesante, una manciata di deputati e più probabimente di senatori potrebbe far saltare il banco anzitempo. Per questo, una volta imboccato il portone di Palazzo Grazioli per la riunione con lo stato maggiore del partito, il premier non s'è tirato indietro officiando l'ennesimo processo al ministro dell'Economia, ovviamente assente. E quando Gianni Letta, tornato onnipresente, ha tentato di far ragionare gli astanti: «Guardate che se salta Tremonti, salta tutto il governo...», Berlusconi è intervenuto personalmente per redarguirlo: «Eh no Gianni, se lo lasciamo fare non recuperiamo più! Deve tirare fuori i soldi» perché «non si fanno le nozze con i fichi secchi». Letta si è ritirato di buon grado consapevole che Berlusconi deve soddisfare l'appetito dei suoi. Non potendogli consegnare sul piatto la testa di Tremonti e neppure la cassaforte custodita a Via XX Settembre deve quantomeno farli sentire spalleggiati.

Nei fatti però non cambia nulla. È stata riesumata la cabina di regia, al ministro dello Sviluppo Paolo Romani è stato affidato il compito di coordinare il lavoro che porterà alla scrittura del decreto sviluppo. Ma l'unica vera notizia uscita da Palazzo Grazioli ieri è che prima del «20 ottobre», il provvedimento non vedrà la luce. Anzi già si preferisce posticipare alla fine del mese, quando – come annunciato ieri – Berlusconi dovrebbe dire la parola definitiva anche sul futuro governatore di Bankitalia. Mosse e contromosse che però rendono sempre più fragile il premier e più incerto il futuro. «Vediamo quando vengono fuori con la legge sullo sviluppo, poi discutiamo», diceva Bossi che ha fatto derubricare la riunione di ieri da «vertice di maggioranza» (così era stato annunciato nei giorni scorsi) a incontro del solo Pdl. La Lega ha bisogno di prendere un po' le distanze. Il malumore della base si fa sentire e nonostante l'accordo con Maroni sul futuro segretario provinciale di Varese, il Senatur deve stare attento. Si spiega così anche la resistenza (momentanea?) al voto di fiducia sulle intercettazioni.

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