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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2011 alle ore 14:25.

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Ellen Johnson-Sirleaf (Reuters)Ellen Johnson-Sirleaf (Reuters)

Un paese raso al suolo, da quattordici anni di guerra civile, un ground zero equatoriale con 3,7 miliardi di dollari di debito estero, senza acqua corrente né elettricità, l'economia allo stremo, la disoccupazione maschile al 90 per cento. Il peso della ricostruzione della Liberia grava principalmente sulle spalle della popolazione femminile. Sulle contadine, le venditrici di manioca, le bambine che fanno dieci chilometri a piedi per procurarsi l'acqua.

E soprattutto su di lei, il capitano al timone di questo vascello fantasma: Ellen Johnson-Sirleaf - EJS, per brevità. Dal 16 gennaio dello scorso anno è presidente della Repubblica e, a 68 anni, è la prima donna capo di Stato della storia africana. L'hanno definita la Thatcher nera.

Senza enfasi: EJS si è fatta da sola, con tenacia e integrità; è stata dirigente della Banca Mondiale, ministro delle Finanze, presidente della sezione africana del programma di sviluppo delle Nazioni Unite; è stata accusata di alto tradimento, incarcerata, costretta all'esilio. Onori - questi ultimi - che all'epoca dei dittatori Samuel Doe e Charles Taylor, gli artefici della distruzione del Paese, erano riservati alle persone troppo oneste e dalla lingua tagliente. I liberiani l'hanno scelta, preferendola a George Weah, per il lavoro più difficile dell'Africa, soprattutto per una donna. «È tutta la vita che faccio lavori complessi e considerati poco adatti a una donna», commenta EJS. È in visita alla contea di Grand Bassa, dove ha avuto l'occasione di seguirla per alcuni giorni. «Dico sempre: sono una tecnocrate, una professionista, e casualmente anche una donna. Sono anche madre e nonna, e metto nel lavoro la passione e la sensibilità di una madre e di una nonna. Ma posso essere dura quanto qualsiasi uomo». Da un anno a questa parte EJS lavora tredici ore al giorno, sette giorni su sette. «Ha un'energia incredibile», osserva il ministro dell'Informazione, Lawrence Bropleh: soprattutto se si considera che ha superato di 28 anni la soglia dell'aspettativa di vita del liberiano medio. Alan Doss, il capo della missione Onu in Liberia (15mila uomini incaricati di completare il disarmo delle milizie e di garantire l'ordine pubblico al posto di una polizia e di un esercito inesistenti), ha dichiarato: «Il primo anno della sua presidenza è stato impressionante».

Per cominciare EJS ha fatto arrestare l'ex presidente e signore della guerra Taylor, fuggito in Nigeria, e lo ha spedito al tribunale internazionale dell'Aia con l'accusa di crimini contro l'umanità. Nondimeno la sicurezza rimane un problema prioritario. «Sono molti gli insoddisfatti, soprattutto gli ex miliziani», dice la presidente . In Liberia, su una popolazione di circa 3,6 milioni di persone, ci sono dai 10 ai 15mila ex militari, senza lavoro e senza prospettive. «Insieme al personale militare delle Nazioni Unite stiamo lavorando per ricostruire l'esercito e una forza di polizia. La presenza delle Nazioni Unite è per noi vitale, per aver garantito la pace e come partner strategico del nostro sviluppo.

Non credo potranno andarsene prima di tre anni. Quanto agli ex militari - prosegue - sono persone che hanno bisogno di un nuovo ruolo nella società. Abbiamo pagato gli anni di servizio arretrati, e continueremo a farlo a dispetto delle ristrettezze economiche, finché non saremo a pari, e a quel punto troveremo loro un lavoro, augurandoci che nel frattempo si sia sviluppato un settore privato che possa accoglierli: penso all'industria del legname, o all'estrazione del ferro e dell'oro, che spero possano riprendere l'attività nel giro di un semestre». In primo piano nell'agenda della presidente , accanto al consolidamento delle istituzioni democratiche e della sicurezza, c'è la questione economica. Assicurato Taylor alla giustizia, EJS ha intrapreso una serie di viaggi all'estero per convincere la comunità internazionale a revocare l'embargo sull'esportazione dei diamanti, del ferro e del legname, le principali risorse del Paese, e per ottenere dagli ex colleghi della Banca Mondiale i finanziamenti necessari a ricostruire la rete elettrica, quella idrica, le strade, le scuole, gli ospedali. Tra i primi risultati, la revoca dell'embargo sulla vendita del legname (per quello sui diamanti, stima, «ci vorranno alcuni mesi»). Come potrà - le chiedo - lo sfruttamento delle risorse forestali armonizzarsi con la conservazione dell'ambiente? «Una delle condizioni per la revoca è stata l'approvazione della legge sulle foreste, che prevede lo sfruttamento ecocompatibile delle risorse e garantisce un adeguato ritorno dei profitti alle comunità interessate.

Le concessioni verranno assegnate in forma competitiva, così da destinarle a chi sappia gestirle in modo appropriato e così da evitare l'interferenza di interessi personali in seno al governo. Prima di procedere vogliamo che tutti abbiano compreso questa nuova filosofia, e che sia completata la formazione del personale». EJS non crede in uno sviluppo africano basato sulle collette internazionali, sui Bono e i Bill Gates. «La responsabilità del nostro sviluppo è solo nostra: dei leader e del popolo. L'Africa ha innanzitutto bisogno di stare in piedi sulle proprie gambe; dobbiamo decidere dove vogliamo andare ed elaborare un piano. In secondo luogo, dobbiamo imparare a usare le nostre risorse nel modo giusto. Certo, non possiamo riuscirvi da soli. Abbiamo bisogno di partner». Tra i Paesi più intraprendenti, anche in Liberia, sta emergendo la Cina. Ma, avverte EJS, «non vi sarà una nuova colonizzazione economica né da parte della Cina, né dell'America, né dell'Europa. Siamo pronti ad accogliere qualunque partner commerciale, purché in regime di cooperazione paritaria e nel rispetto del ruolo assegnato da noi». Un'utopia, se prima non viene scardinato il sistema della corruzione istituzionalizzata su cui la Liberia si è fondata finora. Lo scorso dicembre sono stati incarcerati alcuni membri (fra cui l'ex ministro delle Finanze) del governo di transizione che ha guidato il Paese dal 2003 al 2005: un'inchiesta finanziata dall'Unione Europea li accusa di aver trafugato oltre cinque milioni di dollari dalle casse dello Stato. «Abbiamo cominciato a commissionare indagini di bilancio in modo da individuare i responsabili delle malversazioni durante i precedenti regimi.

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