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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2011 alle ore 15:27.

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Roma il giorno dopo (Ansa)Roma il giorno dopo (Ansa)

In questa domenica romana sembra tutto normale. Normale l'ottobrata che ti fa sentire spaesato davanti al guardaroba, normale il caffè dopo pranzo ordinato al tavolo, normali i genitori con il passeggino e le suore sottobraccio che camminano piano. Ma nell'aria gira una cosa non normale, qualcosa di vicino all'imbarazzo, al pudore, al disagio. Sensazione che ti accompagna se rifai il percorso dei disastri di ieri, magari al contrario, dalla fine all'inizio, come un viaggio psicanalitico per capire cosa ha innescato tutto quello che abbiamo visto.

Così, ecco Piazza San Giovanni: è stata ripulita, bene, solo agli angoli delle strade trovi tubi mettalici che ieri dovevano essere pali e appoggiate alle mura antiche, ordinatamente, tutte le transenne fisse che di solito separano la piazza dalla strada. Il prato è secco, distrutto, non ci è passato sopra solo l'inizio dell'autunno. Le cabine di solito usate per telefonare da chi aspetta l'autobus non ci sono più, le casette dei vigili accanto ai semafori sono crivellate di sassate. Paradossalmente chi se la passa meglio sono gli alberi, tutto sommato usciti indenni dalla furia che gli è passata accanto ieri, come fosse stato un temporale un po' più forte. I turisti entrano ed escono dalla basilica, calmi e curiosi, e si fermano a dare un'occhiata alle statuine di gesso del papa sulla bancarella montata proprio davanti alla macchia nerissima di asfalto ribollito dove ieri bruciava il blindato dei carabinieri.

Anche via Merulana inizia tutto sommato con calma: sotto i grandi platani i cassonetti scampati alle fiamme sono stati rimessi in piedi, ce n'è anche qualcuno di nuovo, ma i loro posti vuoti sembrano denti caduti. All'incrocio con via Labicana una pattuglia di vigili controlla con discrezione chi fotografa le nuove attrazioni dell'angolo fra le due vie: le tre auto bruciate, le vetrine della Banca Popolare del Lazio devastate di mazzate e di scritte tipo "bankers suckers", che sono state coperte con dei pannelli di compensato, un po' per sicurezza un po' per pietà. Dall'altra parte della strada la chiesa di San Marcellino e Pietro, dove ieri i teppisti sono entrati per prendere a calci una statua della Madonna, non è solo chiusa, è serrata su se stessa, come un animale ferito.

Le mura degli edifici di via Labicana sono talmente piene di scritte che sembra di entrare in un tunnel di coscienza: contro lo Stato, contro la polizia, contro la crisi, contro tutto. "Pianta grane, non piantare tende", ha voluto dire qualcuno con uno spray rosso, rivolgendosi a quei ragazzi (che evidentemente considera dei poveracci di pacifisti) che per due notti hanno dormito sulle scale del Palazzo delle Esposizioni, senza la compagnia delle spranghe, al massimo quella di un cane. Poi ecco "Carlo vive" e anche una scritta in greco, tracciata da una mano che parla quella lingua e ha preferito trovarsi a Roma piuttosto che ad Atene. La più riccorrente, però, è a.c.a.b.: una scritta che le forze di sicurezza conoscono bene, perché quel "all cops are bastards" coniato dagli hooligans lo scrivono soprattutto gli ultrà da stadio, che di solito più che con temi alti come la crisi, si indignano per un cartellino rosso o per un gol annullato. Ma che ieri non hanno esitato a scriverlo anche sul portellone posteriore del blindato dato alle fiamme.

Poi, ecco via Cavour: i vigili oggi qui ci sono per impedire che auto e motorini proseguano verso via dei fori imperiali, che come quasi tutte le domeniche è chiusa al traffico e aperta a magnifiche e lente passeggiate. Pure qui le pareti sono zeppe di scritte, e anche chi a Roma fa i conti con questi scempi quotidianamente, si accorge che davvero, davvero sono troppe. Un gruppetto di curiosi è fermo a fotografare lo scheletro della Mercedes station wagon davanti al civico 221. Se guardi in alto, il muro del palazzo è annerito dalle fiamme almeno fino al secondo piano, dove c'è un balcone pieno di piante, incendiate. Le persiane, però, sono aperte, come per fare entrare il sole dopo le pulizie. Dietro il rottame, le vetrine di un "compro oro e Rolex" sono a pezzi, mentre il confinante caffè Borgia è integro e solerte nel servire menù a prezzo fisso ai turisti seduti ai suoi tavoli. Nessuno guarda l'ingresso del Gran Hotel Palatino, al 213: stamattina ha cambiato subito la bandiera italiana che era stata fatta a brandelli con un paio di vessilli corporate, meno patriottici ma efficaci per fare sentire la normalità.

Le scritte continuano, poi all'improvviso, poco prima di Santa Maria Maggiore, si interrompono. Capisci chiaramente che fino a lì deve essere stata una protesta ordinata, democratica, chiassosa, tutto sommato allegra. Tutto sommato normale. Poi qualcuno ha detto "via!". Come i bambini che stamattina decidono di sfidarsi con una corsa sul marciapiede.

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