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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2011 alle ore 07:41.

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Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una fine così feroce e crudele, quasi una metafora della sua vita, quando nell'agosto dell'anno scorso sfilava trionfalmente per Roma con i cavalli berberi, tentando di convertire all'Islam delle giovani hostess malcapitate.

Lo ricordiamo impettito e fiero tra politici e uomini d'affari con la divisa grondante di medaglie. Un alleato dell'Italia, un socio nostro ma corteggiato anche dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Il suo corpo ferito è stato trascinato ieri sul selciato, forse ancora in vita per il colpo di grazia degli insorti. Il volto tumefatto è quasi irriconoscibile, soprattutto per coloro, e sono tanti, che dentro e fuori la Libia, hanno goduto nei decenni dei suoi favori.

In eredità lascia un Paese euforico per la sua uccisione ma dilaniato da mesi di guerra, gestito in 42 anni di potere come se fosse una sua proprietà personale, e anche svariate decine di miliardi di dollari di investimenti all'estero: segno tangibile che il Colonnello non era certo un emarginato.

'Morirò da martire', aveva annunciato mentre si credeva che fosse nascosto in qualche bunker segreto. Ed è andato incontro al suo destino tornando alle origini, nella Sirte dove era nato, forse nella primavera del 1942, in un punto sperduto sulla mappa. «Io sono un beduino che beve l'acqua della pioggia e dei pozzi con le mani congiunte, non possiedo neppure un certificato di nascita». Così si presentava inneggiando ai silenzi del deserto e alla vita nella tenda in pelli di capra.
Gheddafi, soprattutto all'inizio della sua parabola di feroce autocrate, è stato anche questo prima che questi simboli della Libia arcaica diventassero soltanto una retorica vuota che non funzionava più con le nuove generazioni.

Appena dopo l'esplosione della rivolta di Bengasi, il 17 febbraio, si pensava che avrebbe avuto facilmente ragione dell'opposizione e invece un po' per l'effetto emulativo delle rivolte in Tunisia ed Egitto e molto per l'inefficienza del regime, i ribelli si impadronirono della piazza. La reazione di Gheddafi fu dura, amplificata da notizie, a volte false, su massacri e fosse comuni diffuse dalle tv arabe che innescarono un'ondata di sdegno internazionale. Dopo il crollo di Ben Alì e Mubarak, altri due alleati occidentali, bisognava fare qualche cosa sul fronte Sud: la risoluzione Onu 1973 del 17 marzo ha decretato la fine di Gheddafi e il via libera ai bombardamenti.

Neppure l'Italia, trascinata da Francia e Gran Bretagna, poteva sottrarsi: il Colonnello aveva perso anche il suo più stretto alleato, vituperato come il Paese colonizzatore ma pur sempre corteggiato con forniture di gas, petrolio e commesse. Con Gheddafi è finita forse anche la 'Libia italiana', cent'anni esatti dopo lo sbarco a Tripoli nell'ottobre del 1911. Se e come resteremo partner privilegiati è ancora incerto, almeno quanto il futuro della nuova Libia.

Eppure il Qaid, come lo chiamavano un tempo con rispetto, ha avuto una sua grandezza. Fu il primo della sua tribù a studiare. A 17 anni salì in piedi su una cattedra per esortare i compagni del liceo a seguire Nasser, l'eroe che si propose di emulare. Cominciò a reclutare i giovani più coraggiosi che poi fecero l'incruento colpo di Stato del 1969 contro il debole re Idris.

Era un giovane e attraente capitano che sollevò allora le speranze di un popolo, aveva ambizioni intellettuali, al punto di elaborare nel Libro Verde la 'terza teoria universale', in contrapposizione sia al comunismo che al capitalismo, con l'Islam, interpretato in maniera laica. Fu anche un utopista: ma la Jamahiriya, il potere alle masse, si rivelò un fallimento. Alla fine della Libia sono rimaste le cabile e le tribù, insieme alle storiche divisioni tra Tripolitania e Cirenaica.

Ha deluso e martoriato un popolo di giovani che ormai non conosceva più ma non avrebbe preso il potere a 27 anni e attraversato tutte le temperie, compreso il bombardamento del presidente americano nell'86, se fosse stato soltanto una marionetta. Era un leader, un capo militare, anche un terrorista, al quale la Libia andava stretta: per questo ha finanziato guerre e velleitari tentativi di eversione ma nel mondo arabo ha riscosso sempre ben poche simpatie.

Gheddafi ha però mancato l'obiettivo più importante, quello di costruire uno Stato moderno. La Libia del Colonnello non soltanto non ha mai avuto elezioni, ma neppure istituzioni e mancava persino di una burocrazia. Non aveva neppure un vero esercito perché non si fidava di nessuno. Per questo oggi si tratta di rifare uno Stato dalle fondamenta: la sua eredità in questo senso è stata più disastrosa di qualunque altro dittatore del Maghreb.

Gheddafi è stato un giovane ufficiale animato dalla febbre di cambiare il mondo. La febbre si è tramutata in follia, in recita e ora, all'ultimo atto, in un finale disperato. Ma prima ancora di morire nella Sirte aveva già ucciso l'ultimo barlume di quel brillante capitano di cui per molto tempo dopo il colpo di Stato non si conosceva neppure il nome. Se fosse rimasto così, solo un nome, sarebbe entrato nella galleria degli eroi arabi, ora è già un ritratto archiviato tra i peggiori dittatori della storia mediterranea.

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