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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2011 alle ore 07:42.

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Muammar Gheddafi è morto. Bani Walid e Sirte, le ultime roccaforti dei lealisti, cadute. La guerra di liberazione è terminata. È davvero l'inizio della nuova Libia, quello che segnerà l'avvio della ricostruzione e farà ripartire l'industria petrolifera?

Il petrolio prima di tutto. Quello libico fa gola a tutti; è molto pregiato (la qualità migliore da trasformare in benzina), è vicino alle coste europee, ha costi di produzione mediamente bassi. E potrebbe essercene ancora molto. Tutte le major internazionali desiderano tornare in Libia. Eppure tutte, o quasi, guardano all'ex regno di Gheddafi con grande preoccupazione.

Finora sono state riluttanti ad inviare nelle zone calde i loro tecnici. Ma il loro contributo è essenziale per valutare i danni, riparare le infrastrutture e riattivare la produzione. La priorità è la sicurezza; se il Governo provvisorio riuscirà nel difficile compito di riunire i diversi gruppi di ribelli in un nuovo esercito, le ultime cellule lealiste avranno vita difficile. In caso contrario le infrastrutture petrolifere, soprattutto nelle desertiche regioni meridionali, potrebbero rappresentare un facile bersaglio.

Quello che è certo è che la riattivazione di diversi giacimenti nelle ultime settimane è una buona e inaspettata notizia. I danni alle infrastrutture finora rilevati, sono peraltro inferiori alle aspettative. Secondo le autorità di Tripoli la produzione avrebbe già toccato mezzo milione di barili al giorno (mbg). E per tornare a un milione, un livello che garantirebbe al nuovo Governo una comoda autosufficienza finanziaria, occorrerà attendere 10 mesi. Per rivedere i livelli precedenti la rivolta, 1,6-1,7 mbg le autorità libiche parlano di 16 mesi. Gli analisti occidentali sono molto più cauti; due anni, anche tre, secondo Wood Mackenzie.

Se i libici sapranno convivere pacificamente, il futuro è promettente. La Libia è per l'Africa ciò che l'Iraq è per il Medio Oriente: un Eldorado del petrolio ma, al contempo, una promessa mancata. Un Eldorado perché possiede le prime riserve accertate dell'Africa: 47 miliardi di barili. Non solo; decenni di isolamento internazionale hanno lasciato grandi aree inesplorate. Si stima che il suo sottosuolo potrebbe nascondere altre decine di miliardi di barili, estraibili con le nuove tecnologie e gli opportuni investimenti.

La rinascita della Libia è una priorità anche per l'occidente. Ancor di più per l'Italia. Anche nel 2010 Tripoli è stata il nostro primo fornitore di greggio (coprendo il 25% del nostro import petrolifero) e il quarto di gas. Eni è stata fino a febbraio il maggior operatore internazionale in Libia con un'estrazione di 270mila barili/giorno di petrolio equivalente. Quasi tutti i suoi contratti sono in forza fino al 2042. E proprio l'Eni è riuscita con successo a riattivare alcuni importanti giacimenti. Dai pozzi di Abu-Attifeel, a Sud di Bengasi, starebbe già estraendo circa 32mila baril/giorno, con la prospettiva, forse un po' ottimistica, di riprendere la metà delle sue estrazioni di petrolio e gas entro fine anno. Il riavvio, a inizio ottobre, di Green-Stream, il gasdotto che collega Mellitah a Gela, dovrebbe garantirci margini di tranquillità, almeno per la prima fase dell'inverno. Per ora il flusso è inferiore a un 1/5 della sua capacità. Ma entro novembre l'Eni ritiene di poterlo portarlo al 60-70 per cento.

Il capitolo contratti è forse il più criptico. Le autorità libiche hanno più volte confermato di voler onorare quelli firmati in precedenza, eccetto quelli viziati da corruzione. Una circostanza che lascerebbe quindi ampi margini di discrezionalità. Sui nuovi contratti, invece, l'aria che tira è un'altra. Grazie ai buoni e storici rapporti con la Libia, l'Eni dovrebbe mantenere la sua posizione di primo piano. Ma la percezione è che nelle gare future le compagnie britanniche, americane e soprattutto francesi potrebbero essere agevolate, a spese, probabilmente, dei cinesi.

La ricostruzione, infine, è il tasto dolente. In gioco ci sono decine di miliardi di dollari di commesse. Da Tripoli alcuni imprenditori italiani, tuttavia, hanno spiegato al Sole 24 Ore che anche i contratti relativi alle infrastrutture di emergenza, come il ripristino della rete elettrica, di quella fognaria e idrica (nella capitale manca l'acqua da cinque giorni), sono fermi, in attesa che venga nominato il nuovo Governo ad interim. Tutto come cinque mesi fa. Con un'eccezione: dalle piccole alle grandi commesse, le forniture di prodotti cinesi sono spesso guardate con sospetto, se non rifiutate.

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