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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2011 alle ore 08:13.

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Le (poche) aziende italiane presenti in Libia in questi giorni hanno espresso una sensazione di disagio perché – a dispetto delle rassicurazioni – si sentono messe in difficoltà. Certo, ora si riparte, bisogna costruire la nuova Libia, e in questo caso "costruire" non è solamente una metafora politica ma va inteso in senso letterale dopo le distruzioni. Case e fabbriche sventrate; fognature interrotte; acquedotti a secco da giorni; elettricità episodica.

Ma secondo le sensazioni degli imprenditori italiani, le aziende inglesi, francesi e statunitensi sembrano accolte a Tripoli con più generosa simpatia di quella che, fino a pochi mesi fa, era attribuita solamente agli italiani.

Il Cnt, il Comitato nazionale di transizione, non ha ancora la struttura di un'autorità statale. Le amministrazioni pubbliche sono in parte dissolte. Funziona la gestione delle tribù che – feudalesimo moderno – coordinano alcuni servizi locali e amministrano un po' di giustizia. Però gli imprenditori non hanno ancora delineato la mappa dei nuovi poteri e soprattutto non hanno chiaro chi ha l'autorità per decidere, per firmare.

Tranne Eni, petrolio e metano (si veda l'articolo a sinistra), tutto il resto sembra congelato. Ovviamente in questi giorni in Libia stanno lavorando come dannati i fornitori dell'Eni. Sono imprese italiane quelle che hanno fatto ripartire il tubo Greenstream che porta il metano verso l'Italia e sono aziende italiane quelli che stanno riparando, più a monte, i poli petroliferi e i giacimenti.

Più lenta la ripresa per gli altri settori. C'erano due tipi di lavori italiani in corso in Libia: le piccole e medie imprese nei panni dei liberi battitori, cioè i classici imprenditori italiani che vanno all'estero in prima persona e giocano la loro faccia, e le grandi opere frutto del trattato italo-libico dell'estate 2008.

Il trattato tra Berlusconi e Gheddafi non era un semplice accordo. Aveva la struttura del partenariato e si basava sulla condanna ufficiale del colonialismo italiano, che era cominciato esattamente un secolo fa, nella primavera 1911.

Erano in programma progetti a carico dell'Italia coperti con l'addizionale Ires definita "Robin tax", poi destinata, come al solito, ad altre finalità. Nessun rimborso per i coloni italiani espropriati. Ma soprattutto erano in programma grandi opere. Prima fra tutte la nuova via Balbia. Si tratta di un'autostrada costiera da 1.750 chilometri e da tre miliardi di dollari che, ricalcando la strada costruita negli anni '30 sotto il governatorato di Italo Balbo, nei progetti di Gheddafi avrebbe dovuto partire dal confine tunisino per arrivare fino all'Egitto, unendo le città principali come Tripoli, Misurata, Sirte, Agedabia, Bengasi, Barce, Derna e Tobruch.

L'Anas avrebbe avuto il ruolo di coordinamento generale, di advisor globale del progetto della nuova Balbia. Era stata bandita la gara per il primo lotto da 800 milioni.

Aperte le buste, l'offerta migliore era stata presentata da un raggruppamento di imprese guidato dalla Saipem (Eni) in associazione con altre aziende, come per esempio l'azienda vicentina di costruzioni Maltauro e la società milanese di ingegneria Maire Tecnimont.

Dopo quel passo, tutto si è congelato, o meglio si è infiammato nella rivolta libica. Non è stato convocato alcun incontro per la firma di un contratto che nessun'autorità libica avrebbe potuto firmare.

Altre grandi opere (ospedali, strade, centri congressi, grandi alberghi) erano state affidate a società come Impregilo o Trevi. La Sirti e la francese Alcatel stavano cablando Tripoli con la fibra ottica fornita dalla Prysmian. Cablaggi ora in parte divelti dalla tempesta bellica.

In primavera la camera di commercio Italafrica guidata da Alfredo Cestari aveva stimato in 130 le imprese italiane presenti in Libia, per investimenti nell'ordine dei 60 milioni di dollari soprattutto in settori come forniture per l'edilizia, plastica, meccanica, turismo: i settori classici delle imprese italiane che vanno da sole alla conquista del mondo. La stima di Cestari era per un danno sul centinaio di milioni di euro.

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