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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2011 alle ore 06:37.

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Era entrato a Palazzo Chigi con un «no» fermo ed è uscito a tarda sera con quello stesso veto. Umberto Bossi ha fatto delle pensioni la bandiera della Lega e anche l'ultimo baluardo visto che su molto altro ha dovuto cedere. Sui tagli agli enti locali come sul federalismo fiscale che – nonostante qualche colpo di coda – è sparito dall'agenda. E dunque ieri il Carroccio aveva l'assoluta esigenza di non mostrare alcun cedimento sulla riforma della previdenza e abolizione delle anzianità.

Un «no» che ha fatto fallire la riunione del Consiglio dei ministri nonostante il premier e Gianni Letta avessero provato a trattare fino all'ultimo. E fino all'ultimo non l'hanno spuntata. Tant'è che questa mattina l'organo di stampa della Lega, "La Padania", apre con un titolo che non lascia margini: «Scontro finale sulle pensioni. La Lega non arretra, no all'innalzamento dell'età». Insomma, una posizione che non viene scalfita nemmeno dall'extrema ratio di portare il Governo alla crisi e Silvio Berlusconi alla caduta.

È proprio sulla crisi di Governo che si è ragionato in Via Bellerio prima di partire per Roma e approdare a Palazzo Chigi. La domanda è stata questa: come possiamo dire sì alla riforma delle pensioni visto che è probabile che il Governo Berlusconi non regga fino alla primavera 2012? In sostanza, l'Esecutivo non dà una garanzia di solidità tale da pensare che possa durare fino al 2013 e dunque per la Lega il calcolo è stato facile. Meglio dire no alle pensioni e andare a eventuali elezioni tenendo alta una bandiera che rischiare comunque le urne avendola ammainata.

La perdita di consensi – con cui comunque già il Carroccio dovrà fare i conti – sarebbe troppo alto con un «sì» a una riforma che fa male soprattutto ai lavoratori del Nord. Per non parlare dell'ipotesi del Governo tecnico che andrebbe ugualmente bene – se non meglio – a un Carroccio che starebbe saldamente all'opposizione riprendendosi quei margini di manovra politica che ha dovuto azzerare per la convivenza con il Cavaliere.

E soprattutto le ragioni politiche di uno strappo sono abbastanza solide da attendersi più benefici che danni. Il «no» alle pensioni, anche a rischio di diventare gli artefici della fine di Berlusconi, fa infatti molta presa sull'elettorato padano: «Per il 65% la riforma colpirebbe gente che sta al Nord, che ha già lavorato e ha diritto alla pensione. Solo il 25% sta in Lombardia». Dunque questa è la ragione per cui le anzianità non si toccano, perché risiedono in Padania ed è difficile immaginare che Bossi possa cedere a una trattativa. Trattativa che tuttavia il Pdl sta provando a fare nonostante tutte le resistenze.

E si basa su due progetti: uno è quello del ripristino della legge Maroni e del famoso "scalone"; l'altro è strappare al Carroccio qualche mese di allungamento dell'età di pensionamento ma dentro una riforma globale che comporti sacrifici soprattutto per chi è già in pensione e in posizione di privilegio. «Noi – diceva un esponente padano – siamo ancora arrabbiati per quel contributo di solidarietà che è stato tolto dall'ultima manovra. Abbiamo già fatto l'errore di aver fatto pagare l'Iva e aver risparmiato i privilegiati, ora basta».

Sono queste le riflessioni che si sono sentite ieri pomeriggio a Milano, in Via Bellerio. Ma a Roma il premier ha provato a offrire ipotesi di compromesso come il ritorno alla legge Maroni con il passaggio dell'età minima per la pensione di anzianità a 62 anni. Una mediazione che non ha dato frutti né al Consiglio dei ministri né alla cena che è seguita alla riunione. Bossi ha salutato Berlusconi senza un accordo. Ed è difficile che oggi possa farlo. La ragione per cui oggi quella legge non piace più alla Lega? Il problema sono i tempi. Quando fu varata entrò in vigore due anni prima del voto. Adesso tra l'approvazione e il voto potrebbe passare solo qualche mese.

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