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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2011 alle ore 06:38.

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TUNISI. Dal nostro inviato
In Avenue Bourghiba il politologo Hamadi Redissi lancia un'occhiata ironica ai tavolini affollati: «È come il bar di Amarcord, là erano diventati tutti fascisti dopo la marcia su Roma e qui tutti islamisti dopo l'affermazione elettorale di Ennahda: salire sul carro del vincitore è un vizio universale». Ma la politica è un esercizio di cinico realismo anche ai tempi degli islamici: partiti laici e di sinistra come quello del Congresso repubblicano ed Ettakatol, guidati entrambi da due medici settantenni, Moncef Marzouki e Ben Jafar (che si candida per la presidenza), sono pronti ad allearsi con loro per formare, dopo il voto sulla costituente, una coalizione di governo. Ennahda, che vuole darsi un immagine conciliante, è disponibile pure a un Esecutivo di unità nazionale: forse ha superato il 40% ma i risultati ufficiali affluiscono lentamente per le numerose contestazioni sui verbali di voto.
Un accordo tra laici ed Ennahda non significa negoziare con il diavolo. «Gli islamici non sono né angeli né demoni ma professionisti della politica capaci come tutti gli altri di fare promesse e usare un doppio linguaggio a seconda delle opportunità», commenta Khader Abderrhaim dell'Istituto di relazioni strategiche. Autore di libri come "L'Exception islamiste", saggio critico sull'identità musulmana, Hamadi Redissi fa il suo pronostico: «La strategia degli islamici è stata pagante in termini di voti ma non è detto che sia vincente sul lungo periodo: hanno frequentato più le moschee del palazzo, non hanno esperienza di governo. La gente è pronta a manifestare se commettono passi falsi». Per la verità i "modernisti" ieri erano già scesi in piazza davanti alla commissione elettorale accusando gli islamici di brogli, esclusi, per il momento, dagli osservatori internazionali.
Ma il pericolo vero per la Tunisia, secondo Redissi, è un altro. «Rischiamo una fase di islamizzazione "dolce", durante la quale non verranno rimessi in discussione principi fondamentali come la separazione tra Stato e religione o la parità tra i sessi: avverrà a piccoli passi, quasi inavvertita. Vuoi proibire l'alcol? Basta aumentare le tasse e scoraggiare i consumi. Non si impone il velo alle donne ma si crea l'atmosfera sociale favorevole a diffonderlo. Così ci sarà un giorno in cui ci sveglieremo con un Paese cambiato».
Soumaya Gannouchi la figlia di Rashid, lo sceicco fondatore di Ennahda, naturalmente non è d'accordo. «Siamo democratici, io porto il velo ma sostengo solo che le donne abbiano il diritto di scegliere se farlo o no: non è un obbligo. Era il vecchio regime a proibirlo». Cosa vera solo in parte ma Soumaya, 32 anni, vive da vent'anni a Londra nell'ovattata atmosfera della School of Oriental and African Studies (Soas).
Se Ennahda ha vinto la colpa è anche dei laici, dice il politologo Redissi. «Le élite tunisine hanno un ego straripante: abbiamo un nugolo di partiti laici in concorrenza che, se coalizzati, avrebbero potuto vincere. Da Tunisi viene la prima lezione della Primavera araba, valida, credo, anche per l'Egitto dei Fratelli musulmani dove si vota a fine novembre».
Avenue Bourghiba rimane comunque il simbolo di Tunisi e di un grande leader che ottenne l'indipendenza dalla Francia senza una goccia di sangue e per primo riconobbe i diritti delle donne: divieto di poligamia, divorzio autorizzato, aborto legalizzato. Un giorno di Ramadan, il mese del digiuno, osò persino presentarsi in diretta tv bevendo un bicchiere d'aranciata: era il 1964. Ma la torre dell'orologio, illuminata a festa in fondo al boulevard, in una piazza ribattezzata "14 gennaio", il giorno della rivoluzione dei gelsomini, segna adesso per i laici un'ora crepuscolare dell'anno 2011 e lui, Habib Bourghiba, era un uomo dell'altro secolo.
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