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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2011 alle ore 08:13.

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di Alberto Negri Sull'inferriata che proteggeva il governatorato incendiato ieri i giovani di Sidi Bouzid avevano appeso i loro diplomi, pezzi di carta inutili per trovare un lavoro. È il manifesto della frustrazione di un generazione di shebab che chiede qualche cosa di più di un barcone per lanciarsi tra i flutti verso Lampedusa. La Tunisia è al primo test di un esperimento di transizione che riguarda tutta la regione, dal Marocco alla Libia, dall'Egitto alla Siria.
Anche il partito islamico che ha stravinto le elezioni ha ovviamente il suo manifesto, il più efficace è visibile in una delle sale dello scintillante palazzo che ospita la sede di Ennahda nel cuore della capitale: un poster con la gigantografia di Erdogan in giacca e cravatta.
I musulmani moderati dell'Akp sono il modello della Primavera araba più vicino all'Europa. Può sembrare un paradosso ma l'Akp di Erdogan forse non sarebbe mai nato se gli islamici non fossero stati tenaci sostenitori dell'ingresso nell'Unione: sono state proprio le leggi adottate sulla spinta di Bruxelles che hanno permesso, di fronte alle resistenze dei militari e dell'establishment secolarista, la sua trasformazione in un partito che si richiama ai principi democratici occidentali. I musulmani turchi hanno approfittato al meglio del contrastato processo di adesione all'Europa.
I nuovi partiti islamici del mondo arabo, che in qualche caso adottano lo stesso nome di quello di Erdogan, "Giustizia e Sviluppo", sembra che abbiano assorbito anche un'altra lezione turca.
Al primo posto dei programmi c'è l'economia, in versione liberale, non il velo, o la proibizione dell'alcol. Se vuoi indurre gli elettori a essere dei buoni musulmani, tradizionalisti e conservatori, devi convincerli che porterai benessere e posti di lavoro. È quello che ha fatto l'Akp che ha il suo zoccolo duro nelle Tigri dell'Anatolia, la classe imprenditoriale della Turchia profonda.
Gli islamici tunisini li imitano e corteggiano il mondo degli affari. Per tranquillizzare i mercati, i capi di Rinascita (Ennahda questo significa) sono andati a un meeting, assai pubblicizzato, con gli operatori finanziari: Corano e listino sottobraccio alla Borsa di Tunisi, che ha festeggiato con un rialzo dell'indice. Il segretario del partito Hamadi Jebali, candidato premier, ha incontrato gli investitori stranieri e italiani (in Tunisia sono 700), tra questi anche l'amministratore delegato dell'Eni.
Rashid Ghannouchi, un uomo dal passato radicale con un volto severo e concentrato, ha annunciato l'intenzione del prossimo governo di avviare la convertibilità del dinaro: ha passato 20 anni in esilio a Londra con un occhio al Corano e un altro alla City e ai movimenti dei capitali arabi.
Sulla sponda Sud l'Europa può vincere senza muovere un soldato ma con la circolazione delle sue idee migliori: uno spazio comune di libertà e unione, politica ed economica. È il momento di far diventare operativi i polverosi trattati stipulati con i Paesi del Mediterraneo. Mentre l'American Dream perde smalto, l'Europa è di fronte alle coste arabe e questo braccio di mare è come il Rio Grande tra Messico e Stati Uniti: i nostri vicini distanti possono diventare un po' meno lontani.
L'Europa rischia di perdere quando intraprende guerre non sue, come in Afghanistan. Oppure in Libia, un intervento armato in nome dei valori democratici che può assumere connotati imbarazzanti dopo l'annuncio del presidente del Cnt Mustafa Jalil che la sharia, il diritto delle scuole giuridiche coraniche, sarà la legge di riferimento dello Stato: una mossa per calmare gli islamici locali e compiacere gli emirati del Golfo, come il Qatar, che si stanno giocando la carta islamista per raccogliere dividendi politici. In Libia le petro-monarchie potrebbero diventare per l'Occidente alleati ingombranti.
Ma è strano che tutto questo debba ricordarcelo la foto di un primo ministro turco, leader di un Paese che l'Europa si ostina a rifiutare.
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