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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2011 alle ore 07:54.
La rivoluzione promessa dalla riforma universitaria rischia di annacquarsi con gli aggiustamenti che i singoli atenei propongono nei loro nuovi statuti. Scade oggi il termine, già slittato dal 30 luglio, per presentare al Miur le "costituzioni" d'ateneo approvate dai Senati accademici, ma il bilancio a oggi segna rosso. Mancano infatti all'appello 32 università mentre altre 39 sono in attesa dell'approvazione da parte del Ministero (che ha tempo 120 giorni). In pratica, soltanto otto nuovi statuti hanno completato l'iter e sono stati pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale»: due i poli statali nel drappello di testa, l'Università Magna Grecia di Catanzaro e la Ca' Foscari di Venezia.
Per le università non statali non è d'obbligo seguire quanto previsto dalla riforma: nonostante ciò, dalla Luiss alla Bocconi, tutte hanno ritoccato o lo faranno a breve i propri statuti.
Nelle intenzioni della legge 240/2010 la nuova università dovrebbe essere completamente diversa, più snella e con una gestione in stile manageriale, con il rettore che concentra responsabilità e potere di proposta, un consiglio d'amministrazione che decide su tutto con il contributo determinante di personalità esterne al mondo accademico, facoltà soppresse e nuovi dipartimenti capaci di unire ricerca e didattica, un maggiore coinvolgimento degli studenti, presidi di facoltà che spariscono. Di fatto, però, non sempre questo avviene.
La votazione dei nuovi statuti è stata travagliata. Emblematico il caso di Torino, dove il rettore Ezio Pelizzetti non si è presentato alla votazione finale, mentre gli studenti e i ricercatori hanno tentato di bloccare i lavori del Senato per protestare contro il procedimento di nomina del Cda che li escludeva. Ora lo statuto prevede la nomina (e non l'elezione, come richiesto) di tre membri esterni del Cda, sugli 11 totali, selezionati da un Comitato composto da rappresentanti di ricercatori, professori associati, professori ordinari e personale tecnico amministrativo e l'elezione da parte del Senato di altri cinque rappresentanti interni.
Stati di agitazione si sono registrati un po' ovunque, dall'Università del Salento alla Statale di Milano. «I lavori sono stati faticosi e hanno destato grandi conflitti di opinione proprio per la portata innovativa della riforma – sottolinea Marco Mancini, presidente del Crui –: di fatto i poteri del Senato accademico sono ridotti, mentre vengono incrementati quelli del Cda, soprattutto nel poter decidere sul reclutamento del personale. Questo, unito all'ingresso più o meno massiccio di personalità esterne e la nascita dei dipartimenti, porta a un cambiamento epocale».
Ma c'è chi non è così entusiasta dei risultati: «Il rischio è quello che i nuovi organismi riflettano sotto altri nomi strutture già esistenti, senza alcun cambiamento, o che avvengano degli accorpamenti forzati – osserva Guido Fiegna, membro del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario fino al maggio scorso –: si dovrà aspettare l'approvazione da parte del Ministero di tutti gli statuti prima di trarre conclusioni, ma sicuramente si può registrare un eccesso di potere attribuito al rettore, che in alcuni atenei può nominare anche il Cda, e il tentativo di bypassare il nucleo della riforma creando strutture accademiche di raccordo che hanno potere di veto sulle nomine».
«Il problema vero – continua Fiegna – è quello di trovare collocazione a circa 500 ex presidi di facoltà che in precedenza gestivano le assunzioni del personale docente».
Di fatto, per capire cosa accadrà veramente bisogna guardare i singoli statuti, dove si possono riscontrare importanti discrepanze. Limitandosi a quelli già pubblicati in «Gazzetta», notiamo differenze non di poco conto: all'Università Magna Grecia di Catanzaro, per esempio, i membri del Cda sono nominati dal rettore, anche se la sua proposta può essere respinta dal Senato accademico (con la maggioranza dei 2/3). A Venezia Ca' Foscari, invece, tra i candidati, vagliati da un Comitato di selezione (formato da presidente, due esperti interni e tre esterni) vengono scelti dal Senato accademico. Enna Kore, infine, prevede le quote rosa: dei sette membri non di diritto, infatti, quattro devono essere di un sesso e tre dell'altro.
Anche la nascita dei nuovi dipartimenti, che sostituiscono le facoltà, lascia ampi spazi di autonomia: l'intento è quello di unire didattica e ricerca, con un unico organo che si occupa di entrambi. Ma negli atenei più grandi è prevista la possibilità di creare strutture di raccordo, composte dai direttori di dipartimento, che si occupino esclusivamente di didattica e che rischiano di essere una fotocopia delle facoltà. In alcuni statuti, come quello della Iulm di Milano, nella terna di nomi per la scelta del direttore di dipartimento, infatti, deve essere sempre compreso quello del preside uscente. A Enna Kore, Iulm e San Raffaele le strutture non cambiano neppure nome: continueranno a chiamarsi facoltà.
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