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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2011 alle ore 08:07.

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ROMA. Quando poco dopo le 19 arriva l'annuncio della nomina di Mario Monti a senatore a vita, è chiaro a tutti che è su di lui che Giorgio Napolitano punta per salvare il Paese dal default. È una sorta di preinvestitura. Anche perchè controfirmata da Silvio Berlusconi, come fa notare Angelino Alfano, sottolineando anche che fu il premier a nominare il professore alla Ue.

Per tutta la giornata il nome dell'ex commissario europeo è stato in cima ai conciliaboli, ai vertici e alle riunioni tenutesi quasi interrottamente tra Palazzo Grazioli e la Camera. E se di primo mattino il Cavaliere, intervistato da Canale 5, andava ancora ripetendo «dopo di me solo le urne», già qualche ora più in là lasciava intendere che era pronto a non mettersi di traverso a un governo guidato da Monti. Berlusconi sa che questo sancirà lo strappo con la Lega, con Bossi, pronto a sfruttare l'occasione di evitare le urne e rifarsi la «verginità» con un anno di opposizione. Ma tant'è.

Il nuovo record dello spread, che aveva ampiamente superato i 500 punti, unito all'innalzamento record dei tassi sui nostri titoli decennali, oltre la fatidica soglia del 7%, e non ultima la debacle di Mediaset (-10%) hanno fatto capire a Berlusconi che non c'era più modo di temporeggiare. Anche perché tutto questo avveniva mentre gli ispettori inviati dalla Ue e dalla Bce spulciavano le carte nei ministeri di Brunetta, Sacconi e Tremonti. In rapida successione è arrivato così il via libera del premier all'approvazione, già entro sabato, della legge di stabilità e poi il sì ufficioso al governo Monti controfirmando la sua nomina a senatore.

Il Cavaliere ha trattato e ottenuto però alcune garanzie. Tra queste la permanenza di Francesco Nitto Palma al ministero della Giustizia e di Gianni Letta come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una scelta che trova il sostegno, sia pure non entusiasta, di gran parte del Pdl che aveva come principale obiettivo quello di evitare le urne. E quando nel pomeriggio è arrivata la pubblica dichiarazione di Maurizio Lupi, uno dei big pidiellini, punto di riferimento dell'ala cattolica che fa capo a Cl, certo non tacciabile di diserzione, su «un governo di emergenza ampiamente condiviso» tutti, anche coloro che fino a quel momento avevano preferito non esporsi, hanno compreso che il dado era tratto.
«Non possiamo andare a votare sarebbe un disastro», era il ritornello che soprattutto l'ala forzista, da Verdini a Cicchitto, andava ripetendo. Gli unici irriducibili sono stati gli ex An e in particolare La Russa, Matteoli, Ronchi, Meloni e una parte degli attuali ministri tra cui Maurizio Sacconi, Renato Brunetta e Giancarlo Galan. Il ministro delle Infrastrutture è il più agguerrito e a Berlusconi ha già fatto sapere che sono pronti a far le valige una trentina di deputati, probabilmente per riconciliarsi con Storace.

Ma il rischio per il Cavaliere è che stando fermo ne avrebbe persi più del doppio, senza considerare il resto. Claudio Scajola era già pronto a dar vita al suo gruppo e ha rinunciato solo quando ha capito che Monti aveva la strada spianata. Anche Frattini si è mosso. Il ministro degli Esteri ha detto chiaramente di ritenere «insensata» la strada del voto, lo stesso ha ripetuto Raffaele Fitto e anche (non ultimo) Gianni Letta. Ad Angelino Alfano, fino all'altro giorno unico possibile candidato premier del Cavaliere, è stato affidato il compito di annunciare che Berlusconi si dimetterà tra sabato e domenica, subito dopo il via libera alla manovra. Un modo per certificare la fine di quello che alcuni avevano interpretato come l'ultima resistenza del premier, che martedì sera al Quirinale era ancora convinto di avere davanti a sé almeno un paio di settimane.

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