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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2011 alle ore 08:06.

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«È l'euro in crisi, non solo l'Italia. Non ne uscirete da questa situazione se non troverete una maggiore integrazione fiscale a livello europeo, come avviene negli Stati Uniti dove il governo centrale di Washington interviene nei vari stati dell'Unione dove ci sono dei problemi temporanei, in California ad esempio piuttosto che nell'Oregon».
Joseph Stiglitz, 68 anni, ex capo economista della Banca mondiale e professore alla Columbia University, sposta il focus dall'Italia all'eurozona nel suo complesso. «Il patto di stabilità non ha funzionato perché la Spagna lo ha rispettato ma questo non ha impedito alle agenzie internazionali di ridurne il rating perché hanno capito che Madrid non poteva fare quello che aveva promesso senza crescita».

«Le entrate in Spagna erano precipitate, le spese pubbliche aumentate e come è avvenuto in Grecia gli obiettivi di bilancio, senza crescita, sono stati mancati».
Stiglitz punta a stimolare la crescita e avverte che «l'austerità da sola è la miglior ricetta per il suicidio di un paese». Poi bacchetta affettuosamente Tony Blair, l'ex premier britannico, presente anch'esso al World Business Forum di Milano, dicendogli, mentre l'ex primo ministro si ferma a salutarlo cordialmente, che è «troppo ottimista» sulla crisi. Blair, baby pensionato precoce, sorride, ascolta e ammette che puntare tutto solo sul «controllo del deficit non basta più, ci vuole una nuova visione per la crescita».
Quando durerà la crisi? «Se intendiamo il ritorno ai livelli occupazionali pre-crisi, cioè a quelli del 2007 allora dovremo attendere il 2017, dieci anni», spiega Stiglitz avvertendo che è una stima rosea e che è molto difficile fare previsioni di questo tipo.

«I francesi, che temono di perdere la tripla A del loro debito sovrano, hanno capito la gravità della crisi europea e vogliono puntare su una maggiore integrazione fiscale europea mentre i tedeschi frenano e invece dovrebbero spendere di più perché anche un surplus eccessivo come ha dimostrato Alan Greenspan in America può diventare anch'esso un problema», spiega l'economista ospite d'onore a un evento organizzato da SAS, società di software e servizi di Business Analytics.
E gli Stati Uniti? «Non abbiamo una situazione fiscale così difficile come quella italiana ma abbiamo un deficit nell'istruzione e nelle infrastrutture preoccupante». «Oggi negli Stati Uniti ci sono migliaia di impiegati pubblici in meno rispetto all'inizio della crisi e questo è un elemento su cui riflettere perché gli investimenti nel settore pubblico sono un driver dell'economia americana».

C'è inoltre un grave problema di fiducia nelle istituzioni e il movimento di Occupy Wall Street, che ora si è esteso a 70 città americane e non solo a New York, è lì a dimostrare un inquietudine sempre maggiore nell'opinione pubblica che crede che "l'amministrazione non abbia fatto abbastanza". «C'è un problema di mancanza di fiducia verso il settore finanziario mentre la politica viene accusata di non aver fatto abbastanza. Ogni giorno si scopre una nuovo scandalo finanziario sulle pagine del New York Times dove i protagonisti promettono di non farlo più e poi si scopre che hanno fatto le stesse promesse, senza mai mantenerle, sei mesi prima».

«Quando il sindaco repubblicano di New York, Michael Bloomberg, ha minacciato di usare la forza contro Occupy Wall Street la maggioranza dei newyorchesi si sono opposti e i sindacati della polizia si sono schierati con i manifestanti», spiega Stiglitz che si accalora sulla questione che sarà il tema dominante della prossima campagna elettorale.
«Alcune città americane hanno vietato l'uso dei megafoni durante le manifestazioni di protesta di Occupy Wall Street – continua il professore di economia che è stato nei mesi scorsi a Tunisi, al Cairo, Atene e a Madrid per capire il movimento dei giovani indignati e la Primavera araba - per cui si arriva alla conclusione che abbianmo una democrazia iper-regolamentata e un settore finanzario sotto-regolamentato».
C'è uno stato di insoddisfazione generale dei giovani e della gente comune negli Stati Uniti a cui occorre rispondere. «Basti pensare che in America il reddito medio delle persone rispetto a quello del 1968 si è ridotto del 25%, cioè abbiamo assistito a tre decenni di stagnazione», spiega Stiglitz. Che così spiega il fenomeno dell'indebitamento della classe media e la mancaza di risparmio delle famiglie negli Usa : «Zero risparmio, è stata la regola americana per anni».

Ma ha ancora un senso parlare di Pil come elemento per comprendere la situazione di un paese? Non è un sistema rozzo e approssimativo? «Ho partecipato alla commissione voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy sulla revisione dell'indice di crescita e abbiamo fatto numerose proposte come quella di introdurre un indice delle diseguaglianze (Inequality index) o della sostenibilità economica. Ci stiamo lavorando».
«Intanto sono soddisfatto che la povertà nel mondo si è ridotta sensibilmente in Cina, in seguito a una riforma varata nel 1979 e in India stanno cominciando a ottenere buoni risultati mentre è l'Africa che continua a mancare all'appello», conclude Stiglitz invitando tutti a sostenere gli sforzi in questa direzione. Il lavoro da fare è ancora molto lungo.

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