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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2011 alle ore 15:19.

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«Non ho nessun rimpianto, tantomeno rimorsi». Silvio Berlusconi lo dice ai giornalisti, poi entra alla Camera, per la prima volta da semplice deputato, e si siede al suo scranno, con Cicchitto alla sua sinistra e Alfano alla sua destra. Stringe la mano a Tremonti che si siede davanti a lui, i suoi lo applaudono, in un modo che sarebbe stato di certo ancora più intenso se Berlusconi avesse fatto quelle dichiarazioni che aveva annunciato nei giorni scorsi.

Ascolta Alfano con gli occhi chiusi, assorto, e lo applaude mentre parla del sostegno a Monti e dice no alla patrimoniale. Guarda verso l'altra parte dell'emiciclo, verso il Pd: «Per loro è cambiato tutto totalmente, perchè avevano visto in me l'uomo nero, il cattivo. Ora hanno l'intima soddisfazione di non vedermi più seduto lì, al posto di presidente del Consiglio», pensa, e dirà poi ai giornalisti.

Riceve ancora altri applausi dai deputati Pdl quando Alfano lo cita e lo ringrazia per il suo ormai noto e condiviso «senso di responsabilità». Che non è a tempo, come aveva fatto capire ieri alla riunione dei senatori del Pdl prima del voto di fiducia a palazzo Madama. Come successo molte altre volte, quelle parole erano un travisamento dei giornalisti: «Io non ho mai detto che staccherò la spina», sottolinea parlando con un giornalista di Ballarò. Anzi. «Credo che questo governo opererà in maniera tale da essere utile al Paese, per tutta la durata del periodo che rimane». Rilancia. «Io penso che sia un periodo utile per fare cose che il nostro governo si era già impegnato a fare e che verranno fatte con maggiore velocità in questo Parlamento, grazie alla possibilità di avere un voto convergente di tutte le parti politiche». Certo, resta sempre «una invenzione italiana per dare risposte a una situazione difficile» e «non rientra nei canoni della democrazia».

Poco prima che inizi la prima chiama, Berlusconi si alza, si dirige verso i banchi rialzati del governo, saluta tutti i nuovi ministri («buone professionalità con ministri competenti nella materia di cui si devono occupare») e stringe la mano a Monti. Sopra Monti è seduto Fini, ma qui la stretta di mano non scatta.

Di Monti, comunque, oggi va tutto bene: il suo discorso di ieri, e in generale «mi sembra che il governo sia partito bene», dice. Si iscrive alla lista di chi deve votare prima per motivi personali e vota per terzo, dopo Lupi e Argentero e appena prima di Bersani. Poi esce, e in Transatlantico incontra Bossi con cui si ferma a parlare e che lo rimprovera di essersi dimesso troppo tardi perché «si è fidato solo di chi è entrato nel partito solo all'ultimo». Poi passa a Casini, lo saluta, ci parla, per poi dire che «è colpa di Fini se l'alleanza con l'Udc non si è fatta». E ammonisce: «Se l'Udc passa a sinistra, i due terzi dei suoi elettori non lo voteranno».

Insomma, gli ingredienti sono sempre quelli, quasi antichi: Bossi, Udc, giornalisti che travisano. Scranno a parte, nulla appare cambiato: «Non cambia nulla, io ho sempre avuto il massimo rapporto con tutti loro», dice a chi gli chiede se qualcosa si è modificato nei suoi rapporti con gli altri partner europei, Merkel e Sarkozy in testa. Anche l'attivismo è sempre quello: «Non nascondo una voglia di potermi rilassare, ma sento ancora la responsabilità del voto che ci è stato concesso. Ritengo quindi di dovermi impegnare, quasi come un imprenditore a lavoro, per il partito e al parlamento. Per il partito preparerò la campagna elettorale che porterà il Pdl ad essere ancora vincente alla prossima scadenza elettorale». Il futuro è già qui.

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