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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2011 alle ore 10:40.

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La sera dell’11 febbraio, quando centinaia di migliaia di egiziani si riversavano in Piazza Tahrir per festeggiare le caduta del presidente Hosni Mubarak, lo slogan più ripetuto tra i manifestanti era: «L’esercito e il popolo sono la stessa mano». L’attaccamento ai militari, intervenuti con un ruolo neutrale per fermare la repressione, era tale che i soldati venivano sommersi di fiori e dolciumi. Coperti da una bandiera egiziana, i bambini venivano issati sui cannoni dei carri armati, i militari venivano abbracciati dalla folla. Nel clima di euforia qualcuno tuttavia si permetteva di diffidare di tanto ottimismo. L’esercito non si era comunque schierato con la rivoluzione.  «Siamo un po’ delusi dai soldati - ci aveva spiegato  l’anziano veterinario Mustafa Sala - ma li rispettiamo. Sono la nostra ultima risorsa, sono il popolo».

L’ultima risorsa si è però trasformata in una grande delusione. Agli occhi degli egiziani l’esercito guidato dal generale Mohammed Tantawi, oggi capo di stato provvisorio, non ha fatto il suo dovere. Il salvatore, che li aveva protetti dalla brutalità della polizia, è accusato di essersi trasformato in un nuovo carnefice.

Nove mesi dopo la caduta di Mubarak gli attivisti esigono che l’esercito consegni il potere a un presidente civile e venga nominato un Governo di salvezza nazionale che goda del consenso delle forze politiche. Ma sono le riforme promesse dall’esercito, e in larga parte disattese, ad aver acceso la rabbia. Sia quelle politiche, sia quelle economiche. Il persistente ricorso a tribunali militari per processare diversi reati commessi dai civili è motivo di frustrazione. Come la riluttanza da parte dei militari a portare in aula gli ufficiali che si sono macchiati di gravi reati durante l’era Mubarak.

La crisi economica

Ma è la crisi economica a destare la maggiore preoccupazione. Una delle economie più floride della regione - il Pil egiziano è cresciuto dal 2006 al 2009 a una media superiore del 7%, per poi comunque restare sopra il 5% nel 2010) ha dovuto fare i conti con un terremoto. La disoccupazione dilaga, l’inflazione galoppa, il Pil si è contratto ben al di sotto delle previsioni del Governo. Secondo il Fondo monetario internazionale nell’attuale anno fiscale (giugno 2010-giugno 2011) il Pil salirà solo dell’1,3 per cento, ben al di sotto delle stime del Governo (3,5%). Troppo poco. A meno di immediate riforme strutturali, per tenere il passo dell’imponente incremento demografico ci vorrebbero tassi di crescita del 10% l’anno, precisano gli analisti. Senza contare la crescente disoccupazione e l’inflazione, entrambe a due cifre. Seppur in calo rispetto al 18% del 2008, il costo della vita è calcolato per l’anno corrente al 11,6 per cento. Ogni anno sul mercato del lavoro si affacciano 360mila laureati. Trovare un lavoro è un privilegio riservato a pochi.

Così, un terzo degli 80 milioni di egiziani continua a vivere in povertà. Gli aumenti salariali rivendicati dai manifestanti durante la rivolta, e nei giorni successivi da quasi tutte le categorie, sono stati solo parziali. Le riforme promesse per combattere la disoccupazione restano incompiute. L’inflazione, una piaga per le fasce più deboli, è stimata all’11,2 per cento.

Il nuovo Egitto fatica a nascere. Il turismo, che nel 2010 aveva fruttato 11,6 miliardi di dollari, ha accusato un duro colpo. Così come gli investimenti esteri. Secondo i dati della Banca centrale le riserve in valuta estera sono scese dai 36 miliardi di dollari di gennaio a 22 miliardi in ottobre. Un quantitativo sufficiente a pagare solo quattro mesi di importazioni. Anche se il deficit fosse all’8,6% del Pil - come stimano le autorità egiziane - il fardello dei sussidi rischierebbe di diventare insostenibile. Quelli alimentari ammontano a 5,5 miliardi, quelli per benzina e energia superano i 10. Ma prima o poi occorrerà tagliarli. L’ultima cosa che desiderano le fasce più povere dell’Egitto, il primo importatore di grano del mondo.

Ai loro occhi toccare la pagnotta sussidiata - che non a caso si chiama aish (in arabo significa vita) - sarebbe un sacrilegio. Quando il Governo ci ha provato, l’ultima volta nel marzo del 2008, gli egiziani sono scesi in piazza. I morti della rivolta del pane furono più di 20.

Il peso delle forze armate nell’economia

In questo clima di tensione, i privilegi di cui gode l’entourage militare sono motivo di rabbia. La produzione militare è un’enorme macchina, con interessi e ramificazione in ogni settore dell’economia nazionale. Per quanto nel bilancio egiziano ufficialmente la quota per la Difesa è meno del 5 per cento, qualcuno sostiene che l’apparato militare-industriale  valga un terzo del Pil e che sia il primo datore di lavoro nel paese. Le stime più credibili - come quella della National Defence University di Washington  - calcolano sia fra il 10 e il 15% dell'economia egiziana . Troppo per una popolazione che vive di stenti. La luna di miele tra esercito ed egiziani è finita.

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