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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2011 alle ore 07:31.

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C'è chi li chiama euro-outs e euro-ins, intendendo con questa definizione i dieci Paesi Ue che sono fuori dall'euro e i 17 che ne fanno parte. Tra questi due gruppi, ieri al vertice del Consiglio europeo di Bruxelles a palazzo Lipsius, si è aperta una frattura che se non viene ricucita in fretta porta dritto a un'Europa a due velocità.

Ipotesi che ha fatto saltare i nervi al premier britannico David Cameron che ha addirittura minacciato l'uso del veto alla modifica dei Trattati perché teme che le modifiche nell'aria potrebbero colpire la piazza londinese della City.
Ma cosa sta accadendo in realtà a Bruxelles? Molti dei 10 esclusi dall'eurozona (con l'eccezione della Gran Bretagna e la Danimarca che hanno scelto un opt-out, cioè un'opzione a restarne fuori) vogliono entrarci ma non gradiscono che le nuove regole sull'unione fiscale voluta dalla Merkel per uscire dalla crisi siano prese a loro insaputa o contro i loro stessi interessi prima del loro ingresso nella moneta unica. La differenza tra un Trattato modificato a 27 e un Trattato speciale (una sorta di euro-Schengen) modificato a 17 più chi ci voglia stare, non è solo nel fatto che crea un'Europa a due velocità, ma riapre il mai sopito conflitto tra i federalisti alla tedesca e i difensori dell'Europa delle patrie di gaullista memoria.

I due fronti si sono accapigliati per anni sulle barricate: quelli a favore del metodo comunitario, che puntano sul rafforzamento delle istituzioni europee, e quelli della via intergovernativa, che sottolinea l'importanza delle nazioni. Berlino naturalmente punta a una modifica con una maggiore unione fiscale con un'intesa a 27 così da rafforzare la commissione e la Corte di Giustizia nel ruolo di controllore dei conti degli Stati, conscia del fatto che in un'intesa a 17 gli organi comunitari conterebbero assai meno, anche se è disposta ad andare avanti anche a 17. Pesano anche diverse tradizioni: Berlino è uno Stato federale, mentre Parigi è centralizzato e quindi meno disposto alla cessione di sovranità. Inoltre nel sistema federale pesa inevitabilmente la componente demografica, dove la Germania primeggia, mentre in quella intergovernamentale (sostenuta da Londra e Parigi) è lo Stato che conta indipendentemente dalla sua grandezza.

Per tutti questi motivi non stupisce che il primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt (euro-out) ha confermato che «non c'è il sostegno» del suo Paese al cambiamento del Trattato Ue chiesto dalla Francia e dalla Germania per rafforzare la disciplina di bilancio degli Stati membri.
Posizione simile a quella del primo ministro polacco Donald Tusk che si è detto contrario a una «Europa a più velocità», affermando che «l'Europa sono i ventisette Stati membri, non diciassette o più di diciassette» come prevedono Francia e Germania. «La crisi sigilla la nostra bara se scegliamo di alienare l'Europa a Ventisette», ha dichiarato Tusk davanti al Congresso dei partiti europei di destra (Ppe) a Marsiglia, alcune ore prima dell'apertura del vertice di Bruxelles.

Sulla stessa lunghezza d'onda la Romania che «non può accettare un'Unione europea con due categorie di Stati membri», ha affermato il primo ministro romeno Traian Basescu.
Il primo ministro finlandese Jyrki Katainen, invece, membro dell'Eurozona, si è detto pronto ad accettare le modifiche al Trattato (sebbene la commissione parlamentare si sia opposta) sancendo così la frattura in atto tra euro-out e euro-ins.

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