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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2011 alle ore 17:47.

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LONDRA - «Sono stato svegliato da una telefonata alle 4 del mattino. Era il premier che mi annunciava il no britannico. Gli ho detto che era un male per il Paese e che non avrei potuto difenderlo». Nick Clegg, vice primo ministro e leader del partito liberaldemocratico in coalizione con i Tory di David Cameron, ha retto meno di due giorni. I sorrisi d'ufficio messi in mostra subito dopo il summit hanno lasciato spazio alla spaccatura.

Londra entra nell'atmosfera rarefatta e misteriosa dei governi di coalizione dove gli interessi di partito dettano il ritmo alle scelte di governo. È la prima volta da molti decenni e si consuma sul tema che più divide, storicamente, i conservatori dai lib-dem: l'Europa.

Negli istanti immediatamente successivi allo showdown di Cameron a Bruxelles, Clegg aveva detto che «era la linea della coalizione», ieri s'è liberato di una mezza menzogna. «Sono profondamente deluso dall'esito del vertice – ha dichiarato in una lunga intervista alla Bbc – perché è dannoso per il Paese e per l'occupazione in particolare, anche nella City».

Ha debolmente denunciato l'intransigenza dei partner, ma ha lasciato ai fuorionda il suo vero pensiero. La presa di distanze pubblica ha infatti dei ricchi retroscena. Voci anonime vicine ai LibDem confermano che Nick Clegg «non poteva credere» alle parole pronunciate dal premier nella notte, a indicare che il veto era stato esercitato in larga autonomia da parte di David Cameron. Non solo. «A Clegg pare incredibile che il primo ministro – sostiene una fonte citata dall'Observer – non abbia cercato di guadagnare del tempo, di spingere la trattativa più in là, invece di viverla come un ultimatum». Se fosse toccato a lui – ha ammesso al suo entourage il numero due di Downing street – avrebbe «giocato molto diversamente la mano in Europa».

In realtà a Nick Clegg, il più eurofilo leader inglese, hanno dato la sveglia il senatori del partito dal ministro per le attività produttive Vince Cable all'ex numero uno, Paddy Ashdown, violenti nei loro attacchi verbali contro Cameron per dove associare il proprio nome a un gesto che ritengono sia solo il prodotto della deriva euroscettica imposta dall'ala più dura dei Tory. Cable contesta anche la tesi di fondo, precisando di ritenere inaccettabile «l'isolamento nell'Unione per difendere gli interesse dei banchieri della City». Come dire: gli interessi veri, quelli del Paese, City inclusa, si tutelano dall'interno dei meccanismi comunitari.

È un'onda che monta e che si contrappone a quella prevalente del trionfalismo degli euroscettici, nonostante la minoranza del partito conservatore, raccolta attorno al ministro della giustizia Ken Clarke, ritenga un errore aver isolato Londra dall'Ue. David Cameron ha trascorso il week end a Chequers,residenza di campagna dei premier britannici,contornato da una selezionato gruppo di deputati che plaudono alla scelta di distanziarsi da Bruxelles. Domani interverrà pubblicamente sul caso, ma al di là di quanto potrà aggiungere sull'andamento della trattativa, dopo un anno e mezzo di felice coabitazione, il governo di coalizione è scosso. Appena appena, ma per la prima volta trema.

Le falangi euroscettiche già si muovono per rinegoziare globalmente il ruolo di Londra nell'Ue e se lo faranno invocando un referendum, l'esecutivo cadrà. I liberaldemocratici non potrebbero, infatti, continuare a governare. David Cameron non vuole una deriva di questo genere, ma gli eventi stanno accelerando oltre ogni ragionevole previsione, con le rovine della bomba rilasciata dal premier a Bruxelles che già ricadono sul governo.

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