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Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2011 alle ore 18:19.

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La felicità interna del Bhutan, il Better life index dell'Ocse, il questionario sulla felicità del premier britannico David Cameron: sono alcune delle formule messe a punto da governi e istituzioni internazionali per superare il classico Pil. «Il tema della misurazione della qualità della vita tramite metodi che vadano oltre il concetto del Pil non è nuovo, ma negli ultimi anni è diventato sempre più rilevante anche per l'interesse e i lavori avviati in sede Ocse» osserva Enrico Giovannini, presidente dell'Istat e dal 2001 al 2009 chief statistician e director dell'Ocse a Parigi dove ha lanciato il "Progetto globale sulla misurazione del progresso delle società". Ora, con il Cnel, l'Istat ha dato il via a un'iniziativa volta a definire un metodo più completo per il calcolo del benessere.

Ma ora, con lo spettro della mancata crescita, il vecchio Pil non ritorna a un ruolo prioritario?
Abbiamo vissuto anni in cui le risorse erano reputate infinite e la crescita del Pil aveva riflessi positivi anche su altri aspetti della vita dei cittadini, la sanità, l'istruzione, il tempo libero, i trasporti.

Ora ci si è resi conto che ci sono limiti nella disponibilità di beni quali energia, suolo, ambiente e che ci sono trade off che non si possono rimuovere nella valutazione delle dimensioni del benessere, per capire se la società nel suo complesso sta facendo passi in avanti oppure sta regredendo.
E la crisi che cosa ha fatto emergere dal punto di vista delle analisi statistiche?

Ha dimostrato che la crescita economica non risolve da sola il problema della redistribuzione del reddito e del benessere. Con un elevato tasso di crescita del Pil, la questione non si poneva così chiaramente: dello sviluppo potevano beneficiare tutti, anche se alcuni meno di altri. Ora con una crescita esigua o vicina allo zero, si presenta con forza il tema della redistribuzione della ricchezza, da attuare in un'ottica di equità. E non solo tra gruppi che vivono nello stesso tempo ma anche nel rispetto delle generazioni future. Finora è stato anticipato lo sfruttamento delle risorse ambientali e si sono mantenuti i consumi accendendo debiti. È un modello sostenibile ed equo di sviluppo? No, non possiamo rispondere alle nuove emergenze con vecchi modelli.

Durante il convegno delle Caritas lei si è detto preoccupato sia per i dati sulla povertà sia per il rischio di depressione da recessione. Sono rischi non notati di solito dagli statistici.
Ho voluto sottolineare che l'approccio esclusivo alla cura della povertà è insufficiente in questa fase. Ricerche nell'ambito della psicologia applicata alla comprensione delle decisioni economiche (come gli studi condotti dal Nobel Daniel Kahneman o da Richard Layard) evidenziano che la persona non è mossa solo dalla razionalità, ma anche da componenti emotive. Qualora si prolungasse la situazione di crisi, insicurezza e vulnerabilità, con perdite di posti di lavoro o esclusioni dal circuito sociale, potrebbero esserci danni psichici e ripercussioni sul piano sanitario: una grande recessione è suscettibile di trasformarsi in una grande depressione, come dopo la crisi del 1929.

Ma già si avverte pessimismo nell'aria.
Il clima di fiducia, a parte il rimbalzo nell'ultimo mese, è in calo. I consumi finali sono in ritirata così come il risparmio delle famiglie, visto che si fa più fatica a onorare impegni onerosi come ad esempio i mutui. Gli italiani sono più guardinghi e preoccupati del futuro e questo potrebbe accentuare il livello di aggressività.

Ci sono "rimedi" per evitare lo sconfinamento nella recessione/depressione?
Al di là degli interventi della politica economica, assolutamente indispensabili, per ridurre l'impatto della crisi sul tessuto sociale sono fondamentali anche le relazioni interpersonali e le attività che le massimizzino. Alcuni propongono, ad esempio, il servizio sociale obbligatorio. In alcuni Paesi nordici, i giovani sono impegnati nella manutenzione delle case di anziani; poi c'è il modello delle transition town (comunità che applicano metodi antisprechi, ndr); in alcune zone rurali dell'India, il sussidio di occupazione ha sostituito quello di disoccupazione, con l'attribuzione di un salario contenuto per lo svolgimento di attività decise dalle comunità locali. La compensazione non monetaria può essere un modo per aumentare l'inclusione sociale.

Come si pone il progetto Istat-Cnel nell'attuale scenario?
Con il Cnel l'Istat ha definito l'iniziativa stabilendo tre passi: individuare, anche con parti sociali e società civile, che cosa "crea" il benessere; scegliere gli indicatori che tale benessere possono descrivere; portare a conoscenza di tutti i cittadini tali indicatori. La commissione ha scelto 12 domini del benessere (sette sono quelli fissati dalla commissione Stiglitz-Sen–Fitoussi). Nel frattempo si stanno individuando gli indicatori da inserire nella griglia (anche tramite una consultazione aperta a esperti e cittadini su www.misuredelbenessere.it, ndr) per arrivare a una sorta di "Costituzione statistica". A maggio sarà pronta la proposta per predisporre poi il rapporto annuale sul benessere. Come sostiene Amartya Sen, discutere di indicatori contribuisce a identificare gli obiettivi. E la ricerca sul benessere non è astratta e puramente statistisca, ma è volta a dare obiettivi alla politica. E la politica deve dare speranza ai cittadini.

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