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Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2011 alle ore 06:39.
Non si allenta la tensione tra Iran e Stati Uniti innescata dalla minaccia di Teheran di bloccare lo Stretto di Hormuz, passaggio chiave per il petrolio del Golfo Persico, come ritorsione alle possibili sanzioni occidentali sull'export di greggio. Anche se continua ad essere, almeno per il momento, una guerra di parole, affidata perlopiù a portavoce e numeri due.
A rilanciare ieri è stata Teheran, che ha risposto con durezza al monito della Quinta flotta americana («La chiusura dello Stretto non sarà tollerata»). «Gli americani non sono nella posizione di dire all'Iran cosa fare nello Stretto di Hormuz», ha detto Hossein Salami, comandante aggiunto dei pasdaran, le Guardie rivoluzionarie. «Alle minacce - ha aggiunto - si risponderà con le minacce».
Contemporaneamente il vicecomandante della Marina iraniana Seyed Mahmoud Moussavi mostrava i muscoli: «Siamo pronti a confrontarci con i trasgressori che ignorino i perimetri di sicurezza imposti per le esercitazioni». Una dichiarazione, questa, seguita all'annuncio che nel Golfo di Oman era stata avvistata una portaerei americana, con tutta probabilità la USS John Stennis, una delle più grandi unità navali della Marina Usa, che Washington aveva già annunciato di voler mandare nella zona. E, sebbene la portavoce della Quinta flotta, Rebecca Rebarich, abbia dichiarato che l'attraversamento dello Stretto di Hormuz compiuto dalla portaerei rientri in una missione di routine prestabilita, è quasi inevitabile collegarlo ai movimenti e alle provocazioni in atto nella zona. A questi "giochi di guerra", del resto, ha dato il "la" proprio l'Iran, avviando sabato esercitazioni navali nella stessa zona, definite anche in questo caso di routine.
Una provocazione appare anche la minaccia - non nuova - di chiudere lo Stretto di Hormuz, da cui passa circa un terzo del traffico marittimo di petrolio e il 17% degli scambi mondiali: anche se infatti appare tecnicamente fattibile per Teheran, perlomeno temporaneamente, rischierebbe di fare grossi danni prima di tutto all'economia interna, considerando che metà della ricchezza della nazione arriva dall'export di petrolio. Rimane però il timore che, in un contesto di isolamento internazionale per gli ayatollah, la situazione possa sfuggire al controllo e si possa arrivare, se non alla chiusura dello Stretto, al posizionamento di mine che creino problemi alle petroliere occidentali: secondo DEBKAfile, l'agenzia vicina all'intelligence israeliana, le forze statunitensi e Nato equipaggiate per lo sminamento sono già state messe in allerta.
All'origine di questo ultimo scontro c'è il tentativo iraniano di bloccare la nuova tornata di sanzioni contro il suo programma nucleare che mirano proprio al petrolio. Il Senato americano ha già approvato nuove misure che colpiscono le società che intrattengono rapporti con la Banca centrale iraniana, una misura che di fatto renderà molto difficile pagare le forniture di greggio. E l'Unione europea valuta un embargo (una riunione dei ministri degli Esteri Ue è prevista il 30 gennaio).
Su questo fronte ieri si è registrata un'importante presa di posizione di Mario Monti: «È urgente - ha dichiarato il premier italiano - il rafforzamento degli strumenti di pressione sull'Iran, a cominciare dalla riduzione degli introiti da esportazione del greggio, che sono la fonte di finanziamento dei programmi nucleare e missilistico. Tale posizione è condivisa dall'Italia». Monti ha chiesto solo di escludere dall'embargo le importazioni che «non apportano nuove risorse finanziarie all'Iran»; «si tratta - ha chiarito - del petrolio che Eni importa a titolo di pagamento di crediti pregressi». All'inizio di dicembre l'ad di Eni, Paolo Scaroni, si era detto preoccupato che un possibile embargo complicasse il rimborso - in petrolio - dei quasi due miliardi di dollari che la National Iranian Oil Company deve ancora alla società italiana.