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Questo articolo è stato pubblicato il 03 gennaio 2012 alle ore 08:07.

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Da oggi si apre in Iowa la grande liturgia elettorale americana. Formalmente lo scontro è in casa repubblicana, ma le scaramucce dirette tra Mitt Romney, favorito per la nomination, e il presidente Barack Obama sono già evidenti. Con un messaggio chiave che riguarda l'economia: a novembre, al voto finale, si dovrà scegliere fra due filosofie economiche già chiaramente demarcate che segneranno, a seconda dell'esito, il destino degli Stati Uniti per molti anni.

È questo, e in particolare un margine statistico del 5%, il vero oggetto del contendere nelle elezioni del 2012. Il 5% è la differenza che i repubblicani indicano fra il 20% come percentuale delle attività dello Stato sul totale del Pil che si registrava prima di Obama presidente e di Nancy Pelosi alla guida della Camera e il 25% che si registra nel 2012. È quel 5%, dicono i repubblicani, che va ridimensionato. È quel 5% in più a vantaggio dello Stato che soffoca il settore privato. Per questo nonostante stimoli fiscali e monetari senza precedenti il tasso di crescita dell'economia è bloccato su livelli bassi, mai conosciuti dall'economia americana. I democratici sostengono l'opposto. Senza quel 5% in più l'America – e il resto del mondo - oggi sarebbe in depressione economica. La risposta alla crisi del 2007-2009 ha imposto l'intervento dello Stato. Al di là dell'andamento reale dell'economia, è soprattutto attorno a questo dato – e alle due divergenti filosofie economiche sottostanti – che si giocheranno queste elezioni per la Casa Bianca del 2012.

Elezioni che daranno la misura della forza del grande business americano, deciso a regolare i conti con la nemesi Barack Obama. Dell'influenza del movimento populista Occupy Wall Street, che si ribella proprio contro «quell'1% che controlla il 99% del Paese». Della tenuta del movimento Tea Party, reduce da una bruciante sconfitta all'interno dello stesso partito repubblicano appena prima della chiusura del Parlamento per Natale. Alla fine, con la purificazione delle Convention – e salvo la sorpresa di un terzo candidato - le sfumature, i rivoli, le differenze delle basi dei due partiti si ricomporranno in due fiumi in piena.

L'impostazione di fondo di questo scontro l'abbiamo già vista da parte democratica nel discorso di Obama del 6 dicembre scorso a Osawatomie, in Kansas, quando la sua campagna ha deciso di cavalcare la protesta del 2011. In quel discorso, ispirato da quello di un secolo fa pronunciato nello stesso paesino da Teddy Roosevelt in circostanze sociali non dissimili da quelle di oggi, il presidente si è spostato decisamente a sinistra del centro politico americano come lo conosciamo da qualche decennio. E ha confermato che oggi per l'America è importante tornare alla stagione dello statalismo e delle regole pre-reaganiane. «Dobbiamo scegliere fra un modello in cui troppo pochi fanno troppo bene a spese della maggioranza e un modello in cui siamo recuperiamo la nostra unita' nazionale». Obama guarda al "nazionalismo" di Roosevelt e promette di chiudere formalmente con 30 anni di sperimentazioni, sperequazioni ed eccessi del mercato. Vuole che la sua presidenza restituisca, soprattutto nel contesto dell'attuale confronto globale per la supremazia economica, il giusto peso allo Stato.

Con quel discorso Obama ha rafforzato la sua richiesta di nuove tasse, nuove forme di assistenza e di regole e «di aumentare il ruolo dello Stato». I tre ingredienti alla base dello statalismo e le tre cose che i repubblicani e il mondo degli affari aborriscono più di ogni altra cosa. Mitt Romney gli ha risposto il 20 dicembre a Bedford, in New Hampshire. Romney ha promesso di «Salvare la visione americana dei padri fondatori». Dal punto di vista pratico la promessa di Romney si traduce in una conferma dei tagli alle tasse voluti da Bush, in tagli alla spesa pubblica e soprattutto alla spesa sociale e nel mantenere un sistema flessibile che poggia più sul mercato che sullo Stato.

Che questa contrapposizione fosse già nelle carte lo si capì quando falli il "Grand Bargain" proposto da Obama la scorsa estate per chiudere in un colpo solo il problema del tetto sul debito e quello del disavanzo. Le proposte erano buone per i repubblicani, ma avrebbero tolto un elemento di divergenza politica e avrebbero attribuito a Obama il ruolo di grande mediatore fra democratici e repubblicani in Parlamento, quel ruolo "post partisanship" che il presidente ha cercato subito dopo la sconfitta del novembre 2010.

Siamo dunque arrivati con le elezioni di oggi allo scontro diretto. Che vi sia un gioco d'anticipo è chiaro. La settimana scorsa Obama ha attaccato Romney per non aver mostrato le sue dichiarazioni dei redditi. Romney ha attaccato Obama per aver giocato da quando è presidente «90 partite a golf quando il Paese è in crisi». Avremo anche questo, le piccole scaramucce su cui l'uno o l'altro dei candidati cercheranno di far scivolare l'avversario. Ma la partita vera è sul "modello americano"; l'appuntamento del 2012 ci riporta ai "cicli storici" di Arthur Schlesinger che i candidati vogliono mettere chiaramente in gioco. E dopo i mille ottovolanti che avremo da qui a novembre, il risultato finale, come sempre succede, lascerà il segno anche sulla nostra politica.

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