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Questo articolo è stato pubblicato il 04 gennaio 2012 alle ore 08:06.

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Non rompere il clima di coesione creato dall'accordo tra le parti sociali del 28 giugno scorso. Il messaggio di Pier Luigi Bersani a Mario Monti è esplicito. Nel pieno della contesa tra Governo e Cgil sul formato degli incontri per la riforma del mercato del lavoro (bilaterali, come vuole l'Esecutivo, o tavolo allargato a tutti, come vuole il sindacato di Susanna Camusso), il segretario del Pd punta decisamente sulla concertazione e sul dialogo sociale.

Prima una dichiarazione che sembra essere un invito, oltre che al Governo, anche alla Cgil a non imputarsi sulla forma e a badare alla sostanza: «Spero proprio che la questione del metodo non impedisca di affrontare la sostanza della questione. Il formato dell'incontro può essere risolto con il buon senso senza creare una pregiudiziale». Poi, visto l'irrigidimento del ministro Elsa Fornero, l'affondo nel pomeriggio: «Veniamo da un'esperienza di divisione del mondo del lavoro che non ha portato a nulla. Poi con l'accordo del 28 giugno si è raggiunto un punto di coesione e di equilibrio. Non si rompa quel punto di coesione». Tutto questo nello stesso giorno in cui Bersani aveva affidato in una lunga lettera a Repubblica le proposte del Pd per i mesi a venire chiedendo soprattutto il rilancio del dialogo sociale: «Emergenza e transizione pretendono una forma particolare di dialogo sociale tale da sollecitare partecipazione e corresponsabilità, salvaguardando comunque la decisione tempestiva».

Il fatto è che Bersani deve fare i conti con la "sinistra" del suo partito. E proprio nel momento in cui – almeno per l'immediato – è stato allontanato dalla porta lo spettro dell'abolizione dell'articolo 18, la divisione nel partito rischia di rientrare dalla finestra. In discussione c'è il metodo della concertazione, che in effetti il Governo Monti sembra voler superare, e i rapporti con la Cgil. Non a caso ieri le dichiarazioni più dure contro il Governo e in difesa del sindacato "rosso" sono state quelle di dirigenti come Stefano Fassina, il "falco" responsabile del lavoro nel mirino dei liberal del partito, o come Cesare Damiano, l'ex ministro considerato l'uomo-cerniera con la Cgil. «Il Governo non deve dare l'impressione di voler dividere i sindacati», ha detto Damiano. Ancora più duro Fassina: «La ritrovata unità d'azione delle organizzazioni sindacali è un bene comune che il governo Monti dovrebbe valorizzare invece di temere e tentare di scardinare attraverso incontri bilaterali su ricette preconfezionate». Anche secondo la presidente del partito Rosy Bindi, spina nel fianco alla sinistra del segretario, il metodo non è questione di forma: «La fase 2 non può prescindere dal dialogo con le parti sociali e il Parlamento».

Insomma, nel giorno in cui Bersani dettava l'agenda del Pd per le prossime settimane la cronaca ha trasportato in secondo piano le sue proposte: oltre al dialogo sociale, i rapporti con l'Europa («Basta manovre, nessuno pensi di trattarci come la Grecia. Siamo troppo grandi e quindi parecchio ingombranti. Se ne tenga conto») e le riforme istituzionali (riduzione del numero dei parlamentari, riforma del bicameralismo, riforma elettorale). Nessun pentimento nell'avere deciso di appoggiare Monti, ribadisce a fine giornata Bersani. «Eravamo sull'orlo del precipizio. Ma c'è ancora moltissimo da fare, dunque ci riserviamo il giudizio».

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