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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2012 alle ore 08:12.
Cosa succederà dopo la sentenza della Corte costituzionale sui quesiti referendari relativi alla attuale legge elettorale? Gli scenari possibili sono tre. Se la Consulta ammetterà i quesiti è certo che ci sarà un voto. Non è però certo quando. In condizioni normali la consultazione dovrebbe svolgersi questa primavera. Ma potrebbe essere rimandata al 2013 in caso di scioglimento anticipato delle Camere. Un'altra quasi-certezza è che il voto sarebbe favorevole ai quesiti. In un sondaggio del Cise realizzato a dicembre alla domanda se in caso di referendum l'intervistato sarebbe andato a votare il 71% ha risposto positivamente (Cise.luiss.it).
Tra questi il 70% ha detto che avrebbe votato a favore della abrogazione della attuale elegge elettorale contro un 16% di contrari e un 14% di indecisi. Sono dati che vanno presi con cautela perché su argomenti come questo la volatilità della pubblica opinione è elevata. Ma sono dati comunque indicativi di un clima che per molti aspetti assomiglia a quello degli anni 1992-1993. Da una parte una classe politica screditata il cui comportamento ha contribuito a screditare le attuali regole elettorali, dall'altra una cittadinanza esasperata. Come nel 1993 il referendum su un argomento astruso come quello elettorale è l'occasione per un voto di protesta, per un voto contro. Per questo i dati del Cise sono credibili.
E allora cosa farà la classe politica in un simile scenario? Non c'è dubbio che una parte di essa sarebbe tentata dalla prospettiva di guadagnare tempo grazie allo scioglimento delle Camere. Nelle condizioni difficili in cui si trova oggi il Paese questo sarebbe un esito disastroso anche perché le elezioni non darebbero un verdetto chiaro. Eppure la tentazione c'è perché la legge elettorale che verrebbe ripristinata dal voto popolare non piace alla maggioranza di coloro che siedono in parlamento oggi. L'elemento centrale di quella legge, con cui abbiamo votato dal 1994 al 2001, sono i collegi uninominali. Nelle attuali condizioni di frammentazione del nostro sistema politico i collegi uninominali sono una minaccia per i partiti. E lo sono molto più del premio di maggioranza in vigore oggi. Se a questo aggiungiamo il fatto che a destra si è radicata la convinzione che favoriscono la sinistra si capisce perché molti sarebbero tentati di guadagnare tempo con la scorciatoia delle elezioni anticipate. Ma non è detto che finisca così. È possibile che, messi alle strette, i partiti riescano a trovare un accordo per cambiare l'attuale sistema di voto. Ma non sarà facile. E comunque esiste il rischio concreto che il nuovo sistema sia peggiore di quello attualmente in vigore.
Cosa potrebbe succedere invece se la sentenza della Corte negasse l'ammissibilità dei quesiti? Questo è il secondo scenario. Per le ragioni già dette buona parte della classe politica tirerebbe un respiro di sollievo. Tradotto in altri termini, la pressione per riformare la legge elettorale si allenterebbe e il dibattito su questa e su altre riforme rientrerebbe nell'alveo delle infinite e inconcludenti discussioni tra partiti che sono divisi su tutto. Perché questo è proprio il punto. Per fare una buona riforma elettorale, che per tanti motivi dovrebbe essere il punto di partenza di un progetto complessivo di riforme istituzionali, la condizione necessaria è che la classe politica sia d'accordo su un modello di democrazia. Invece questo accordo non esiste. Alternanza e bipolarismo non piacciono a tutti. Democrazia dell'alternanza vuol dire più competizione e più competizione significa dare agli elettori più poteri. Molti pensano che questo modello sia sbagliato. Per questo è difficile fare una riforma elettorale finalmente condivisa e quindi dotata di ampia legittimità e perciò capace di durare nel tempo.
In queste ore corre voce che sia possibile un terzo scenario. La corte potrebbe non ammettere i quesiti referendari ma dichiarare l'incostituzionalità di alcuni aspetti della attuale legge elettorale. Questo è possibile e anche giusto. Perché gli elettori della Valle d'Aosta e i cittadini italiani residenti all'estero non concorrono con il loro voto alla assegnazione del premio di maggioranza? È palesemente incostituzionale che ci siano cittadini di serie A e di serie B. E questa considerazione vale indipendentemente dal fatto che il voto degli italiani all'estero sia un meccanismo da rivedere totalmente. Bene farebbe quindi la Corte a richiamare l'attenzione su questi aspetti della legge. Ma si sussurra che essa potrebbe anche mettere in discussione la legittimità del premio di maggioranza. Se così fosse si creerebbe una situazione molto delicata. Il rischio sarebbe di mettere in crisi tutto il sistema della rappresentanza su cui si reggono comuni, province e regioni. Il premio di maggioranza infatti non esiste solo a livello nazionale. È una componente essenziale di quel "modello italiano di governo" che si è progressivamente affermato in tutti i livelli a partire dal 1993 quando è stata introdotta l'elezione diretta del sindaco. Rimettere in discussione oggi questo modello non è quello di cui il Paese ha bisogno.