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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2012 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 11 gennaio 2012 alle ore 08:53.

A Daraa, dove ogni famiglia può contare un morto. Nella foto Bashar AssadA Daraa, dove ogni famiglia può contare un morto. Nella foto Bashar Assad

Tutto è cominciato qui, a Daraa, con l'arresto di una dozzina di ragazzi – il più grande aveva 15 anni, il più giovane 9 – della famiglia Abazeed che sui muri della scuola avevano scritto slogan contro Bashar Assad (nella foto). La città, 100 chilometri a sud di Damasco, solo tre dalla frontiera con la Giordania, è il capoluogo di una provincia di un milione di abitanti, un grosso borgo slabbrato cresciuto in maniera disordinata con i traffici di confine. Gli Abazeed sono un clan numeroso e a centinaia il 18 marzo si radunarono davanti alla moschea per chiedere il rilascio dei giovani: ci furono quattro morti, il primo anello di una catena di sangue che non si è più fermata.

Dall'esplosione della rivolta, secondo le fonti dell'opposizione, a Daraa ci sono state 500 vittime, oltre 5mila in tutta la Siria; 400 dall'inizio della missione degli osservatori della Lega Araba.

«Ogni famiglia, ogni casa, può contare un morto, un ferito o un arrestato», sostiene un giornalista che ha assistito all'assalto della sede della tv di stato. «Non saprei dire se si trattasse di gente dei servizi di sicurezza o insorti, erano tutti incappucciati con passamontagna, i volti coperti come i ninja». Chiede di restare anonimo perché tutti hanno paura. Anche quelli del regime: «Non avevo nessuna voglia di venire qui» dice Fadi, giovane funzionario azzimato del ministero dell'Informazione e diventa assai nervoso quando, tornando a Damasco, dobbiamo attraversare uno dei quartieri caldi della periferia.

A Daraa si respira una tensione sorda, insidiosa, che ricorda l'Algeria degli anni di piombo, in una città grigia che gli edifici di cemento grezzo fanno apparire ancora più incolore, confinata dalla povertà e dalla violenza in un mondo in bianco e nero dove il campo si divide tra "noi e loro", tra chi ha le armi, in mano ai lealisti di Assad o agli insorti, e una popolazione stritolata in una morsa. Ma forse era proprio questo che si voleva.

I militari presidiano i check-point e il centro con imponenti blindati bianchi, le forze di sicurezza si muovono a tutta velocità disegnando strette serpentine intorno ai blocchi di cemento davanti a uffici pubblici e caserme. La Quarta Divisione dei corpi speciali comandata da Maher Assad, fratello minore di Bashar, qui ha avuto la mano pesante. La giornata di sole che illumina la piazza principale con i negozi aperti e le ragazze a passeggio, quasi tutte con foulard o chador, non deve trarre in inganno. «Appena se ne va la polizia abbassano le saracinesche», dice Fadi, che vuole sottolineare l'importanza della presenza dei militari.

Uomini in giaccone nero armati di kalashnikov appartenenti a qualcuna delle 17 branche dei servizi segreti del Mukabarat fanno la guardia al Palazzo di Giustizia: un parallelepipedo vuoto e annerito, assaltato e incendiato due volte, così come un vicino centro informatico donato dai giapponesi. Ma a Daraa le manifestazioni sono finite da un pezzo e hanno lasciato il campo ad attacchi armati e sabotaggi. Con il sole ancora alto all'orizzonte, dopo la preghiera, la gente sparisce dalle strade, qui come a Homs, roccaforte della rivolta, dove le divisioni settarie tra sunniti, alauiti e sciiti, sono più forti. Nessuno passa più da un quartiere all'altro: si disegnano così nuovi e invisibili confini più resistenti del filo spinato.

Il nuovo governatore della città, Mohammed Khaled Hannous, un funzionario richiamato dalla pensione, ha la sua versione della storia: «C'è un piano internazionale per far saltare la Siria finanziando tre tipi di gruppi armati: i salafiti (i radicali sunniti, ndr), l'ala più estremista dei Fratelli musulmani e gruppi criminali che fanno traffico d'armi». Gli chiedo se davvero ci sono stati 500 morti a Daraa: «È una barzelletta, abbiamo avuto 122 vittime tra poliziotti e militari». Sui morti civili però è stranamente vago: «Non saranno più di una cinquantina», e liquida in fretta la questione.

Alle sue spalle c'è un busto di Hafez Assad mentre di fronte, sullo schermo, scorrono le immagini del figlio Bashar che all'Università di Damasco ha tenuto ieri il suo più lungo discorso alla nazione da quando è succeduto al padre nel 2000. Gli Assad, rappresentanti della minoranza alauita, setta musulmana eterodossa, sono al potere da 40 anni e non vogliono mollare. Bashar sfodera la tesi preferita, quella del complotto straniero: «Non farò passi indietro, è il popolo che mi sostiene. Vogliono la fine dell'unità della Siria ma li sconfiggeremo» e promette, insieme al pugno di ferro contro il terrorismo, un referendum costituzionale in marzo ed elezioni tra maggio e giugno con una nuova legge elettorale.

Non sembra convincente. «Spazzatura», commenta seccamente Roula Roukbi, esponente sanguigna dell'opposizione del Coordinamento nazionale e di una grande famiglia damascena che dirige il centralissimo Hotel Ferdows. A lei non piaceva Hafez e tanto meno Bashar che deve essere apparso come una sorta di dittatore riluttante: voleva essere un autocrate moderno, forte della sua educazione britannica, ma prima è stato indeciso sulle riforme, stretto nella morsa della vecchia guardia, e poi, quando ha imboccato la strada della repressione, non è mai sembrato davvero al comando.

Anas Azrak, noto giornalista siriano che oggi lavora per la tv al-Manar degli Hezbollah libanesi, ferrei sostenitori degli Assad, si lancia in un pronostico, ovviamente interessato, su Bashar. «Se non c'è un intervento esterno il regime non cade. Può subire scossoni, perdere il controllo in alcune aree, dovrà sicuramente affrontare difficoltà economiche e un embargo soffocante, ma resta in piedi se le forze armate continuano a sostenerlo».

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