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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 08:11.

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Le malelingue che da mesi si erano mobilitate contro di lui, dicono che tanto non avrebbe vinto. Il processo elettorale continua come prima, la rivoluzione egiziana anche. Ma la decisione di Mohamed ElBaradei di ritirarsi dalla corsa presidenziale della quale era uno dei due-tre candidati più autorevoli, non è una scelta personale. È un atto d'accusa politico ai militari.
«La mia coscienza mi impedisce di concorrere per la presidenza come per qualsiasi altra posizione ufficiale se ciò non avviene all'interno di un quadro democratico», dice ElBaradei in una conferenza stampa improvvisata ma che l'atmosfera politica al Cairo annunciava da tempo. Più di una dimissione che potrebbe anche rientrare, la sua è una denuncia-protesta. Quello che ha spinto al ritiro il candidato di maggior prestigio fra i fin troppi politici liberali e moderati del Paese, è l'atteggiamento della giunta militare che dovrebbe amministrare la transizione dal vecchio regime a uno nuovo. Che invece governa «come pensasse non ci sia stata una rivoluzione».
L'impressione è diffusa. Non solo i giovani di piazza Tahrir pensano che il capo della giunta, il generale Mohamed Tantawi, e i suoi colleghi, abbiano più dimestichezza comportamentale e ideale con la dittatura - della quale erano parte integrante - di quanto non provino per ciò che è venuto dopo. Hanno una naturale predisposizione all'autoritarismo, anche se guidare l'Egitto di questi tempi non è cosa facile.
ElBaradei sapeva che non avrebbe vinto le presidenziali previste a giugno. La lunga tornata elettorale per il Parlamento, chiusa qualche giorno fa, ha dimostrato che il Paese è con i Fratelli musulmani e i salafiti. Visto il successo, Libertà e giustizia, il partito della fratellanza che aveva deciso di non correre per le presidenziali, potrebbe cambiare idea. Al momento i due contendenti più accreditati sono l'ex segretario della Lega Araba Amre Moussa, uomo per molte stagioni, un simbolo accettabile della transizione; e Abdel al Fottuh, presidente del sindacato dei medici, islamico riformista cacciato dalla fratellanza.
Ex diplomatico, direttore generale dell'Agenzia atomica dell'Onu, ElBaradei era l'egiziano più conosciuto al mondo dopo Mubarak. All'Aiea aveva preteso rigorosi controlli a Saddam Hussein e tenuto testa all'amministrazione Bush che pretendeva di avere le prove, la "canna fumante", del nucleare iracheno. Per questo nel 2005 all'Agenzia fu attribuito il Nobel per la pace. In tempi non sospetti, quando Mubarak governava saldamente, ElBaradei era tornato in Egitto per smuovere la società civile. La rivolta di piazza Tahrir ha dimostrato che non aveva torto.
Per molti versi Mohamed ElBaradei è il simbolo di quello che noi pensiamo sia l'Egitto, più di quello che in realtà è. Fin dal suo trionfale ritorno (poche migliaia di persone in aeroporto) il laico e democratico ElBaradei è sempre stato il nostro candidato ideale. Un po' meno lo era per gli egiziani, più conservatori e religiosi. Col tempo i giovani di pazza Tahrir lo hanno eletto come il loro principale rappresentante politico (non il solo, tuttavia). Non gli islamici, per i quali ElBaradei era troppo laico: quella definizione in Egitto è quasi abominevole.
Infine noi crediamo che il problema dell'Egitto di oggi siano i Fratelli musulmani: il loro successo elettorale ci mette paura. ElBaradei, invece, teme di più e denuncia l'illiberalità dei militari che quella presunta degli islamici. Per lui il problema dell'Egitto sono ancora generali.
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NON È PRIMAVERA

Fine della corsa
Mohamed ElBaradei, 69 anni (nella foto), ha rinunciato a candidarsi alla presidenza egiziana affermando che il Paese è tuttora in mano al «vecchio regime» dei generali che governano dalla deposizione di Hosni Mubarak. «La mia coscienza non mi permette di correre per la presidenza o per altre cariche ufficiali se non all'interno di un sistema realmente democratico», ha detto ElBaradei, che nel 2005 ha vinto il premio Nobel per la Pace con l'Agenzia dell'Onu per l'energia nucleare.

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