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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2012 alle ore 08:12.

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TRIPOLI - La posta in gioco è altissima: la ricostruzione della nuova Libia. Un business che, sul lungo termine, si preannuncia colossale: decine di miliardi di dollari in appalti, anche di più. Perché in palio non ci sono solo le infrastrutture danneggiate dalla guerra e la riapertura dei canali commerciali, ma anche il ripristino dei grandi progetti trascurati da Gheddafi. Come la rete fognaria ed elettrica di Tripoli. Ma anche strade, ospedali, porti. Un'opportunità da non perdere per molti Paesi.

A tre mesi dalla morte del raìs, la ricostruzione sembra tuttavia ferma. Ci sono aspetti incoraggianti, come i mezzi finanziari di cui dispone la Libia. La comunità internazionale sta provvedendo a scongelare parte degli asset che l'entourage di Gheddafi deteneva in mezzo mondo: 120-150 miliardi di dollari. Alcune decine di miliardi dovrebbero essere presto a disposizione del Governo ad interim. Senza contare i grandi proventi dell'energia: la produzione petrolifera sta crescendo ben oltre le aspettative. La Libia può realizzare una poderosa ripresa.

Vi sono, però, anche notizie meno incoraggianti. Arrivati a Tripoli si avverte un senso di precarietà. I più potenti gruppi di ribelli – gli Zintani e quelli di Misurata – non hanno ancora deposto le armi e controllano vasti quartieri della capitale. L'esercito e le forze di polizia sono di là da venire. Le autorità, inoltre, sembrano più attente al futuro assetto politico del Paese che alla ricostruzione.

L'opinione più condivisa a Tripoli è che le aziende italiane possono giocare ancora un ruolo di primo piano, ma non devono perdere tempo. Diverse sono già tornate. Come Salini, che nel 2010 ha firmato tre contratti per circa 400 milioni di euro, tra cui il ripristino delle piste dell'aeroporto di Kufra e la costruzione delle due nuove piste dell'aeroporto internazionale di Tripoli. «Sono ottimista - ci spiega Bruno Salis, responsabile di Salini per la Libia -. Alcuni contratti sono già stati confermati e confido che altri lo saranno tra breve. Quanto alla ricostruzione in generale occorre pazienza. La presenza sul territorio resta fondamentale». Tra le aziende italiane già attive c'è anche Maltauro. Il gruppo vicentino, presente dal '76, ha in corso progetti edilizi ma figura anche nel consorzio che si è aggiudicato la prima tratta dell'autostrada Egitto-Libia-Tunisia. Progetto inserito nel Trattato di amicizia Italia-Libia del 2008. Lo scorso anno Maltauro aveva in fase di avanzata progettazione la costruzione di un complesso universitario a Tripoli (180 milioni di euro). «È prematuro attendersi oggi dei grandi contratti di appalto, che arriveranno più in là nel tempo – spiega Luigi Lapadula, responsabile area Libia -. Ritengo che le imprese italiane debbano tornare per tessere le relazioni». «Ma gli interlocutori non sono facilmente identificabili e alcuni enti versano in stato di quasi paralisi», si lamenta un altro imprenditore.

Bonatti, general contractor in Libia da oltre 30 anni, è stata una delle prime aziende a rientrare. Opera presso i principali centri di greggio e gas per conto di compagnie petrolifere internazionali e nazionali, ma è attiva anche nelle costruzioni civili. «Abbiamo ripreso i contatti con alcune oil companies, stiamo operando in aree remote del Paese», fa sapere l'azienda parmigiana. «Siamo anche interessati a ricostruire infrastrutture civili, in particolare ospedali. La ricostruzione è una grande opportunità. E il sistema imprenditoriale italiano ha sempre goduto di un rapporto speciale con la Libia».

Se nel settore energetico del Paese l'Eni dovrebbe consolidare la sua posizione di primo operatore, la lotta per aggiudicarsi gli appalti negli altri settori sarà serrata. Perché ora si stanno affacciando nuovi competitors: Emirati Arabi, Qatar, Libano, Egitto e soprattutto la Turchia, uno dei Paesi più agguerriti. I Paesi occidentali, comunque, non si fanno scoraggiare. Una delegazione di 10 aziende britanniche del settore infrastrutture sta arrivando in Libia. Anche i francesi, che godono del supporto popolare e delle autorità politiche, si stanno rafforzando.

Nel grande business c'è però chi parte svantaggiato: la Russia, e soprattutto la Cina, i cui enormi progetti edilizi rischiano di rimanere cattedrali nel deserto. Il vuoto lasciato da loro sarà probabilmente riempito dai turchi. I settori più alla portata delle aziende italiane sarebbero l'edilizia di servizio (come ospedali e impianti di trattamento delle acque) e sul breve termine soprattutto l'agro-alimentare, la meccanica, e i materiali da costruzione.

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