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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2012 alle ore 06:40.

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MILANO
Quella che sembrava quasi una battuta, pronunciata dall'eurodeputato leghista Matteo Salvini giovedì scorso e indirizzata al presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni («gli consiglio di farsi due conti e pensare seriamente se andare avanti o meno»), rischia di mettere alle corde una delle alleanze più longeve tra Pdl e Lega Nord.
Il presidente ciellino aveva tentato di rintuzzare l'attacco dei maroniani. E sabato sera, nella trasmissione tv condotta da Gianluigi Paragone, aveva rassicurato i lombardi: «Il vicepresidente della Giunta, Andrea Gibelli, nonché capodelegazione della Lega Nord in Regione Lombardia, mi ha garantito che Bossi non intende recedere dagli accordi». La certezza è durata lo spazio di una notte. Domenica mattina, in piazza Duomo a Milano, le parole di Bossi hanno ferito la maggioranza che governa il Pirellone come una scudisciata: «O Berlusconi abbandona Monti, oppure noi togliamo il nostro sostegno alla Lombardia, dove ne arrestano uno al giorno». Un ultimatum e una minaccia allo stesso tempo. Dopo la sentenza del capo, pure i leghisti della Regione Lombardia, sino a domenica scorsa non particolarmente aggressivi, si sono scatenati. Il leghista Davide Boni, presidente del consiglio regionale, ha dettato al governatore la linea politica di qui in avanti: «La Lombardia deve necessariamente ribellarsi a una politica nazionale scellerata e centralista. Per questo consiglio al presidente della Giunta di non perdere altro tempo e di recarsi in conferenza Stato-Regioni senza continuare a subire oltre i provvedimenti di questo governo tecnico». Un'impennata, quella degli esponenti autonomisti in Regione, impensabile solo venerdì scorso. Ma alle dichiarazioni bellicose, tranne colpi di scena, non seguiranno i fatti.
Bossi cerca di ricompattare i suoi contro un nemico che è solo apparente. La Lega avrebbe molto da perdere se ribaltasse gli equilibri della Regione Lombardia. L'ultimo rimescolamento nei posti chiave risale a nemmeno sei mesi fa. E il Carroccio ha fatto la parte del leone. Il leghista varesino Giorgio Papa si è assiso su una delle poltrone più ambite, quella di direttore generale della Finlombarda, una sorta di banca regionale che da un paio di anni svolge pure il ruolo di tesoreria per il pagamento di beni e servizi della sanità. Qualche mese prima la Lega aveva piazzato i suoi uomini in altre due società partecipate dalla Regione: Giampaolo Chirichelli al Cestec e Stefano Bruno Galli a Eupolis. E non si trattava neppure della prima, lauta redistribuzione di poltrone. Alla fine del 2010 era andato in scena lo spoil system nelle Asl: i manager del Carroccio, oltre all'assessorato alla Sanità retto dal medico personale di Umberto Bossi, Luciano Bresciani, hanno strappato una ventina di direttori generali di aziende sanitarie locali e strutture ospedaliere. Un bel bottino. Che si somma a quelli accumulati al Piemonte e al Veneto, la regione che in termini di consensi equivale al granaio leghista. Alle regionali del 2010 la Lega Nord ha raccolto 788mila voti, il 35,1% dei consensi. Il governatore leghista Luca Zaia, alla sua prima esperienza dopo tre legislature guidate da Giancarlo Galan, uno dei fondatori di Forza Italia, getta acqua sul fuoco delle polemiche spalleggiato dal segretario regionale della Lega Gian Paolo Gobbo. «La maggioranza funziona» dice Gobbo.
In verità i malumori montano: la squadra degli assessori a Palazzo Ferro-Fini oltre che debole (è stata selezionata in ossequio al criterio di obbedienza) e divisa tra tosiani da una parte e seguaci di Zaia e Gobbo dall'altra. I primi contestano al governatore uno scarso protagonismo nella lotta contro il governo presieduto da Mario Monti, che domenica a Milano ha apostrofato come lo sceriffo di Nottingham. Una battuta affilata, ma gli stessi sostenitori della Lega notano che il salto di qualità della Giunta Zaia non c'è stato neppure dopo la dipartita del governo Berlusconi, un esecutivo che replicava le stesse alleanze e dunque poteva generare qualche titubanza critica.
Di tutt'altra natura il decisionismo di Flavio Tosi, che sta combattendo persino contro il suo segretario regionale, il solito Gobbo, che vede come il fumo negli occhi la nascita di una lista personale del sindaco di Verona con stampigliato il suo nome. Scaramucce che in qualche modo anticipano la sfida del prossimo congresso nazionale veneto, che come è stato stabilito domenica pomeriggio in via Bellerio dovrà tenersi entro tre mesi. A sfidare il potere decennale di Gobbo nel granaio nordestino sarà proprio il maroniano Tosi, che in giugno potrebbe occupare due posti di potere cruciali per le battaglie interne al partito. In Lombardia l'antagonista di Giancarlo Giorgetti sarà l'eurodeputato Matteo Salvini, ma si tratta di due maroniani, dunque una partita dalla quale è inutile aspettarsi colpi di scena. Se tutto andrà secondo le previsioni, Maroni a quel punto dovrà solo aspettare l'incoronazione del congresso federale: Bobo segretario e Umberto presidente. E finalmente la transizione sarà compiuta.
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