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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2012 alle ore 06:38.

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ROMA
La mozione sulla Ue è stata appena approvata, quando Umberto Bossi, nel lasciare la Camera, rilancia il suo ultimatum a Silvio Berlusconi, che si può riassumere così: o Monti o Formigoni, uno dei deve saltare. Ad appena due giorni dalla cena milanese tra il Cavaliere e il Senatur, si ricomincia daccapo. Bossi indossa l'elmetto davanti a cronisti e telecamere per mostrarsi duro e puro. «Dopo un po' mi rompo le scatole...», insiste, sostenendo di non temere neppure per l'eventuale rappresaglia del Pdl in Veneto e Piemonte, le due regioni guidate dal Carroccio. È l'ennesima sfuriata cui seguirà probabilmente una nuova cena, già concordata per la prossima settimana.
Tutti recitano una parte in commedia. Anche Berlusconi, che aveva ancora una volta minimizzato gli attacchi dell'ex alleato, assicurando che in Lombardia non ci sono problemi tra Lega e Pdl e trincerandosi dietro il «massimo riserbo» quanto ai contenuti dei colloqui con Bossi. I due leader sono in difficoltà e alla bisogna, vicendevolmente e consapevolmente, utilizzano l'altro per recuperare un po' d'ossigeno. Lo ha fatto Bossi in piazza Duomo domenica per reagire ai fischi e ieri rilanciando l'ultimatum, così come il Cavaliere ospitandolo l'altra sera a casa sua, come già aveva fatto alla vigilia del voto su Cosentino. Ma è un gioco che sta diventando pericoloso. «Bossi faccia quel che vuole, non possiamo star qui a sentire ogni giorno le sue dichiarazioni», è esploso ieri il governatore lombardo Roberto Formigoni mentre alla Camera, lontano da spettatori, il segretario del Pdl Angelino Alfano e il governatore leghista del Piemonte Roberto Cota chiacchieravano fitto fitto.
Nei partiti ci si muove in ordine sparso. Nessuno per ora ha individuato una strategia e dunque ci si limita al tatticismo. Non potrebbe essere altrimenti visto che sono più le variabili internazionali che la competizione politica interna a decidere il da farsi. Il risultato è che nessuno vuole esporsi più di tanto. Lo si è visto anche ieri, in occasione del dibattito sulla mozione Ue. Pdl, Pd e Terzo Polo hanno sottoscritto, presentato e votato lo stesso documento ma non hanno certo celato le distanze. Per questo ad Alfano che ci tiene in aula a ringraziare Monti per «l'attestato di continuità con il precedente governo Berlusconi» e a sottolineare che quando c'è in ballo l'interesse del Paese «si indossa uniti la maglia della nazionale», replica il segretario del Pd Bersani appellandosi ai «progressisti europei» affinché difendano «un modello sociale unico al mondo che ci rifiutiamo di veder svilito». Tutti invece ribadiscono di non voler altre manovre, che gli italiani i compiti li hanno fatti e che è tempo che l'Europa faccia la sua parte. Ma sono belle parole e costa poco pronunciarle.
Decidere invece come posizionarsi già alle prossime amministrative, chi candidare e con chi allearsi è assai più pericoloso. Anche nel terzo polo c'è nervosismo. Sembra infatti che Casini (corteggiato da più parti) non sia affatto intenzionato a legarsi fin d'ora al partito della Nazione che Gianfranco Fini vorrebbe lanciare a maggio per testare il Terzo polo alla prossima tornata elettorale.
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