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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2012 alle ore 06:37.

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ROMA
L'Italia non fornisce servizi alla famiglia e di conciliazione. Ci sono meno posti di lavoro per le donne. E il gap salariale rispetto agli uomini è ancora grande: a livello grezzo è circa il 6 per cento. Ma se si analizzano le caratteristiche del lavoratore, secondo una ricerca Bankitalia presentata ieri al Cnel durante gli «Stati generali sul lavoro delle donne», il differenziale retributivo di genere è ancora più ampio. E aumenta nel tempo, passando dal 10,3% del 1995 al 13,8% del 2008.
Si è invece quasi colmato il divario in termini di istruzione. E nella fascia d'età fino ai 44 anni le donne più giovani sono in media più istruite dei loro coetanei. Anche se, ha aggiunto Roberta Zizza, economista di palazzo Koch, «restiamo comunque indietro nel confronto europeo».
Nel Belpaese poi c'è ancora un netto sbilanciamento nella ripartizione dei carichi domestici e di cura che nel 2008-2009 nel 76% dei casi (dati Istat) sono stati svolti interamente dalle donne. La quota era del 78% nel 2002 e dell'85% nel 1989. In pratica, ha spiegato l'esperta di Bankitalia, l'Italia è «l'unico Paese in cui le donne lavorano, considerando lavoro retribuito e domestico, significativamente più degli uomini. Oltre 75 minuti al giorno».
E non bisogna dimenticare neppure l'effetto crisi. Nel biennio 2008-2010, ha ricordato Linda Laura Sabbadini, capo dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell'Istat, l'occupazione femminile è diminuita di 103mila unità (-1,1 per cento). Nel solo 2010 il tasso di occupazione femminile è stato del 46,1% «ultimi in Europa prima di Malta». E nei primi nove mesi del 2011 ci sono state ben 45mila giovani donne che hanno perso il lavoro.
Insomma per le ragazze la strada è ancora più in salita. E fin dagli inizi. L'Istituto di statistica ha evidenziato infatti che per le under 30 il tasso di occupazione è più basso, la quota di precarietà più alta (35,2% contro il 27,6% dei coetanei), e la retribuzione è inferiore, con meno di 900 euro (892 euro contro i 1.056 euro di busta paga netta mensile dei dipendenti). Andando avanti con l'età il quadro non migliora, visto che tra le madri il 30% è costretta a interrompere il rapporto di lavoro per motivi familiari. Per i padri la soglia si ferma al 3 per cento.
E se si guarda alle stime dell'Isfol, illustrate ieri dal responsabile del servizio statistico, Marco Centra, la percentuale di donne che hanno abbandonato il posto per dedicarsi ai bambini sale al 40%, 40,8% per la precisione. La differenza tra le buste paga delle donne e quelle degli uomini sembra segnare un gap ancora più difficile da colmare. Anche l'Istat parla di uno svantaggio a doppia cifra. In particolare, secondo l'Istituto di statistica, stando a dati del 2010 lo stipendio netto mensile delle dipendenti è inferiore del 20% (1.096 contro 1.377 euro). Discriminazioni e crisi portano all'acuirsi di fenomeni di rassegnazione, con l'avanzata in Italia dell'esercito delle scoraggiate che toccano quota 16,6% nella fascia d'età tra i 15 e i 74 anni pari a quattro volte la media Ue (4,4 per cento).
Insomma, ha riassunto il Cnel, l'Italia è carente di servizi per le famiglie, «con la conseguenza che le donne non entrano nel mercato del lavoro o ne escono dopo il primo figlio o per assistere parenti anziani». Basti pensare che, alla luce delle statistiche presentate ieri, dopo la nascita di un bambino il tasso di occupazione femminile (tra i 25 e i 45 anni) passa bruscamente dal 63% al 50%, per crollare ulteriormente dopo la nascita del secondo, evidenziando come il ruolo femminile nel mondo del lavoro «sia sacrificabile alla cura dei figli e all'attività domestica». Ed è anche per questo, ha concluso il presidente del Cnel, Antonio Marzano, «che finchè perdurano le tra grandi discriminazioni nei confronti del Sud, dei giovani e delle donne, l'Unità d'Italia non potrà dirsi completata».
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