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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2012 alle ore 06:36.

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Ha esitato a lungo Mark Zuckerberg prima di decidere che era giunto il momento di portare la sua Facebook in Borsa. Qualcosa lo spingeva a rimandare. Diversi articoli su di lui, usciti durante gli anni dell'incredibile corsa della sua creatura, ricordavano episodi e frasi che indicavano il dubbio di fondo di Zuckerberg: «Che tipo di azienda può diventare Facebook?».
La domanda non riguardava, ovviamente, la funzione essenziale di Facebook. Perché su questo Zuckerberg ha sempre avuto le idee molto chiare: una piattaforma che facilita la comunicazione tra le persone. Era una domanda più profonda: che contributo poteva dare Facebook al mondo? «Facebook è nata con una missione sociale – ricorda Zuckerberg nella lettera che accompagna i documenti inviati alla Sec in vista della quotazione –. E la missione sociale era di rendere il mondo più aperto e connesso».


Ebbene: per dare il suo contributo sociale, bastava avere entrate superiori ai costi, o servivano anche i capitali della Borsa? Un po' per l'evidente maturazione personale del ragazzo, un po' per il consiglio e la pressione dei suoi collaboratori, dei suoi soci e delle sue banche, Goldman Sachs in testa, ora, a 27 anni, Zuckerberg conosce la risposta. Chi non sia nella sua testa, che controlla la maggioranza del pacchetto azionario del gigante dei social network, non è altrettanto sicuro di comprendere. E deve intravvedere dalle sue mosse la direzione che Facebook può prendere. Per motivare una capitalizzazione da 100 miliardi di dollari e per interpretare una popolazione da 850 milioni di persone che si connette regolarmente al servizio, generando 4 o 5 dollari di fatturato procapite all'anno e un dollaro di utile. Che cosa può diventare Facebook, dunque?
È chiaro che l'azienda controlla una piattaforma gigantesca che, ovviamente consente di realizzare campagne pubblicitarie di buon impatto, ma sulla quale soprattutto si possono sviluppare applicazioni di ogni genere, destinate a un pubblico vastissimo, molto attento e coinvolto. I giochi di Zynga, la creatrice di un bestseller come Farmville, hanno generato da soli l'11% del fatturato di Facebook nel 2011. E il potenziale economico di queste applicazioni è chiaramente superiore a quello della semplice pubblicità. Le applicazioni che implicano l'utilizzo del denaro virtuale di Facebook, poi, potrebbero diventare esplosive. Il tutto si basa sulla proprietà più importante dell'azienda: la conoscenza del grafo sociale di una quota gigantesca della popolazione mondiale, cioè la conoscenza delle relazioni tra le persone, della fiducia e dell'intensità che dedicano a quelle relazioni, degli interessi e delle emozioni che sviluppano nel corso di quelle relazioni. Si tratta di un'enormità di dati importantissimi: tra quegli 850 milioni di abbonati, Facebook ha facilitato – e registrato – oltre 100 miliardi di connessioni. E tutto quello che condividono quelle persone, tutto quello che si scambiano, su Facebook, aggiunge conoscenza e opportunità di sviluppo per la piattaforma e per l'ecosistema di innovazioni e attività che si può sviluppare sulla piattaforma.
Ci stiamo avvicinando alla risposta? Non ancora. Se fossero soltanto scambi monetari, Facebook diventerebbe dunque una sorta di mercato planetario, tra persone che si conoscono e si fidano le une delle altre. Ciascuna in una "bolla" di relazioni che conosce e che considera parte del suo mondo. E probabilmente gli investitori che credono tanto nella quotazione dell'anno ritengono che questo sia più che sufficiente per ripagarli. Ma il fatto è che su Facebook gli scambi monetari, per quanto potenzialmente enormi grazie alle proporzioni del servizio, non generano la maggior parte del valore. Il social network, piaccia o non piaccia, è anche una piattaforma sulla quale le persone si scambiano informazioni e producono, a modo loro, cultura, istanze politiche, solidarietà e conflittualità sociali.
A giudicare dalla lettera citata in apertura, Zuckerberg ha in mente soprattutto quest'ultimo aspetto. Forse anche sulla scorta delle vicende della primavera araba del 2011, Zuckerberg parla di Facebook come di uno strumento per sviluppare un dialogo più onesto e trasparente nelle società, con maggiore capacità di influenza da parte delle popolazioni e più responsabilità da parte di chi le governa. Con la conseguente innovazione nel l'educazione, nella creazione di posti di lavoro, nella sanità. «Il potere di condividere online sta portando la gente a far sentire la propria voce in una misura e con un'efficacia che non era mai stata possibile nella storia. E quella voce non si potrà mai più ignorare». Zuckerberg avverte gli investitori: «Noi vogliamo fare la nostra parte per aiutare questo progresso». La capitalizzazione, a leggere le sue parole, non è il fine, ma solo un mezzo.
È un discorso da leader. Circondato dalle necessità tecnologiche e finanziarie, dalla critica alla profondità culturale di ciò che si scambia sulla sua piattaforma e dai diffusi timori per le garanzie della privacy degli utenti, Zuckerberg cerca dunque un pensiero più ampio per governare il processo che ha avviato. Ma per riuscire nel suo intento dichiarato, il suo pensiero dovrà crescere alla velocità del suo network.
luca.debiase@ilsole24ore.com

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