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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2012 alle ore 12:02.

Tifosi di calcio gridano slogan durante una protesta in Piazza Sfinge al Cairo dopo la strage (LaPresse)Tifosi di calcio gridano slogan durante una protesta in Piazza Sfinge al Cairo dopo la strage (LaPresse)

Il presidente del nuovo Parlamento Mohamed Saad al-Katatni, della fratellanza islamica, dice che «è opera del demonio». Non può che essere stato il male assoluto a provocare in una sola sera 73 morti e 1.000 feriti: più delle vittime di 10 giorni di scontri durante la rivolta di piazza Tahrir. Il problema è quale demonio si sia scatenato nello stadio di Port Said.

Al-Masry, cioè gli egiziani, della città sul canale di Suez, e al-Ahly del Cairo sono due squadre blasonate e in grande concorrenza nel campionato egiziano. La seconda è famosa per aver vinto di più in Egitto e nelle coppe africane, e per avere la curva più violenta del campionato. In generale il tifo calcistico egiziano è molto violento. Due anni fa, nello spareggio per i mondiali sudafricani, i tifosi presero d'assalto il pullman della nazionale algerina. Il derby al Cairo fra l'Ahly e Zamalek è spesso un problema di ordine pubblico. Ma questo non è sufficiente per spiegare un massacro così.

L'Egitto è un Paese fragile. Ci sono state le prime elezioni, pacifiche e democratiche, con la schiacciante vittoria di Libertà e Giustizia, il braccio politico dei Fratelli musulmani. Ora è iniziata la fase più delicata: deve essere scritta la nuova Costituzione, gli egiziani saranno chiamati a confermarla o respingerla in un referendum. Infine a giugno, prima del mese del digiuno di Ramadan, si voterà per il presidente. Se il Paese non precipiterà nella violenza. I militari non hanno chiarito se alla fine di questa lunga transizione che controllano, si faranno da parte. Una parte pensa sia necessario, un'altra no. Nemmeno i Fratelli musulmani hanno ancora chiarito (nemmeno a loro stessi) se il nuovo Egitto debba essere un Paese democratico a vocazione islamica o una repubblica islamica.

È questo il quadro, lo sfondo ambiguo, nel quale alla fine di una partita senza decisioni arbitrali controverse, vinta largamente 3 a 1 dai padroni di casa, la gente si massacra. Durante la rivoluzione dell'anno scorso e nel ritorno di fiamma a fine novembre, in piazza Tahrir i ragazzi della curva dell'Ahly, alleati per una volta con gli ultras di Zamalek, erano stati il braccio armato della rivolta: erano loro che rispondevano con la violenza alla violenza dei militari, spesso in contrasto con i giovani promotori originali delle manifestazioni di piazza Tahrir. È possibile che allo stadio di Port Said la polizia abbia programmato e compiuto la sua vendetta: così sembra da molte testimonianze.

O potrebbe essere qualcosa di più articolato e ancor più pericoloso. Anche in Egitto la chiamano strategia della tensione. Era già successo con altri simboli utili per provocare il caos: l'ambasciata israeliana presa d'assalto, i copti cristiani brutalmente uccisi. Un regime militare durato 60 anni non finisce in un giorno né in un anno. Lascia come retroguardia attiva, un apparato poliziesco e di sicurezza, il Mukhabarat, difficile da scardinare e dalle fedeltà ambigue. È potere puro e redditizio.
L'obiettivo è diffondere insicurezza: costringere i militari a ripristinare uno stato d'emergenza imposto per 31 anni e revocato da poco. Questo provocherebbe la reazione dei giovani di piazza Tahrir, dei Fratelli musulmani e del Parlamento.

Difficile che la transizione potrebbe continuare come previsto fino alle elezioni di giugno. Davanti al Parlamento il primo ministro Ganzouri ha ammesso ieri la sua «responsabilità istituzionale» per i fatti di Port Said. È pronto a dimettersi, se l'assemblea lo chiede. I partiti lo hanno chiesto. Il lavoro di chi mesta nella violenza è pericoloso ma non così difficile.

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