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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 17:11.

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Salvar Kir e Omar Hassan al-Bashir (Epa)Salvar Kir e Omar Hassan al-Bashir (Epa)

«Il clima al momento è più vicino a quello di guerra che a quello di pace». Con questa dichiarazione del Presidente sudanese Omar al Bashir è d'accordo Salva Kiir, suo omologo a Juba, capitale dello Stato del Sud Sudan, nato lo scorso anno per effetto della secessione da Khartoum. Il contenzioso odierno tra Khartoum e Juba è lo stesso di sempre: il petrolio, motore di crisi globali a ogni latitudine.

Se la separazione tra nord e sud Sudan è stata consensuale, non si è mai trovato un accordo soddisfacente per regolare la questione dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi concentrati a sud. Il greggio è esportato dai porti sul Mar Rosso che appartengono a Khartoum. Da questa zona, ove sono concentrati gli impianti di trasformazione il combustibile prende il largo verso l'Asia. Il greggio sudanese soddisfa il 5 per cento del fabbisogno cinese. Il gigante asiatico figura tra i principali alleati e partner economici di al-Bashir.

L'ultima tornata di negoziati tra Khartoum e Juba sul petrolio, tenutasi nei giorni scorsi ad Addis Abeba si è conclusa nell'ennesimo nulla di fatto. Sempre sotto l'egida dell'Unione Africana i contendenti torneranno a sedersi allo stesso tavolo tra circa una settimana. I nodi da sciogliere restano gli stessi: la suddivisione dei proventi dell'oro nero e la delimitazione dei confini, in particolare per quanto riguarda la provincia di Abyei (zona a cavallo tra nord e sud ricca di giacimenti). Le accuse incrociate che precedono il nuovo round di colloqui sono pesanti. Khartoum dice che Juba ha deciso in questa fase di sospendere la produzione petrolifera per provocare il crollo di Omar al Bashir, il cui regime reclama a gran voce i 74mila barili di greggio giornalieri su cui esiste un accordo. Il Sud Sudan accusa a sua volta il nord di aver fatto il gioco sporco sul petrolio, appropriandosi in maniera illecita di circa 40mila barili risultanti mancanti dal campo petrolifero di Palouge.

Anche prima della separazione consensuale, avvenuta tramite referendum, il Sudan era un paese diviso a metà. A nord la maggioranza della popolazione è di religione musulmana, mentre a sud è prevalentemente cristiano-animista. Ma la lunga guerra civile arginata nel 2005 dalla firma di un accordo di pace, aveva alla base, più che molte pur significative questioni etnico-religiose, soprattutto controversie territoriali per lo sfruttamento di risorse.

«Andremo alla guerra se saremo forzati ad andare alla guerra» ha detto venerdì il presidente sudanese sul cui capo pende una condanna della Cpi per crimini di guerra, contro l'umanità e genocidio. Ma alla guerra al Bashir ha forse deciso di andarci perché teme di restare col cerino in mano. A fine gennaio il Sud Sudan si è accordato col Kenya per la costruzione di un nuovo oleodotto che sposta le rotte del greggio di Juba a sud. La nuova pipeline che troverà sbocco sull'Oceano Indiano a Lamu taglierà Khartoum fuori dai giochi. Quel petrolio val bene un'altra guerra.

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