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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 15:27.

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Col passare del tempo tra i diplomatici occidentali si fa strada un'amara consapevolezza. Le speranze che l'iniziativa diplomatica per chiedere la dimissioni del presidente siriano Bashar al-Assad, e gestire una pacifica transizione del potere, abbiano successo si affievoliscono. La Siria è condannata a vivere un anno di violenze.

Probabilmente una guerra civile capace di lasciarsi dietro un pericoloso vuoto di potere in un Paese tanto complesso quanto importante. La grande paura è che l'incendio divampi nel Golfo, la regione in cui si trova più del 50% delle riserve mondiali di greggio.

Nonostante i continui moniti occidentali, una risoluzione di condanna del Consiglio di sicurezza fallita solo per il veto di Russia e Cina, la chiusura di alcune ambasciate e il richiamo di diversi ambasciatori, il regime di Damasco sta portando avanti l'offensiva più violenta da quando è iniziata la rivolta, undici mesi fa. Stroncare la resistenza a Homs, epicentro della rivolta, è divenuto un imperativo. Sembra che il regime abbia compreso che se non riesce a fermare la rivolta ora, potrebbe non fermarla più. Il numero di quanti abbandonano l'esercito per unirsi ai rivoltosi sta assumendo dimensioni preoccupanti. Stesso discorso per il passaggio di armi – e sembra combattenti stranieri - attraverso il confine del Libano. Per ora sono limitate, ma in futuro potrebbero creare una forza antagonista capace di spezzare la Siria in due.

Ecco perché da una settimana Damasco sta ricorrendo a pesanti attacchi contro quartieri abitati da civili. Stando ai resoconti di alcuni attivisti, quello di ieri su Homs «è il bombardamento più violento dall'inizio dell'attacco». In una settimana le vittime sarebbero, solo a Homs, 400, quasi tutti i civili. Diversi quartieri sono senza acqua, elettricità, a corto di viveri e farmaci. Le linee telefoniche sono bloccate.

Si combatte anche a Damasco, dove venerdì notte in un'imboscata dei ribelli sarebbero caduti dieci soldati dell'esercito. La violenza è arrivata anche nella città settentrionale di Aleppo, dove le proteste erano state finora limitate. Il duplice attentato di venerdì – alcune fonti parlano di kamikaze – contro una caserma militare e una dei servizi di sicurezza ha un'alta valenza simbolica. Se il regime ha accusato i «terroristi» – termine con cui da tempo definisce i ribelli - fonti dell'intelligence Usa hanno fatto circolare una notizia allarmante, che prefigura uno scenario di caos nel caso di caduta del regime: dietro le stragi di Aleppo, ma anche dietro i recenti attentati a Damasco, ci sarebbe la regia del ramo iracheno di al-Qaida. Gli attentati sarebbero stati ordinati direttamente dal numero uno di al-Qaida, l'egiziano Ayman al-Zawahiri.

La diplomazia mondiale è divisa. L'Arabia Saudita ha fatto circolare ieri all'Assemblea generale dell'Onu una bozza di piano di pace sulla Siria simile a quella respinta dal Consiglio di sicurezza la settimana scorsa a causa del veto di Russia e Cina. Irritata, Mosca ha prontamente invitato a ritirarla. I ministri degli Esteri dei Paesi arabi si riuniranno comunque oggi al Cairo: sul tavolo ci sarà l'ipotesi di una missione comune di osservatori Onu-Lega araba per fare cessare le violenze. Che si intensificano giorno dopo giorno. Un alto generale lealista siriano, Issa al-Khawli, direttore dell'ospedale militare "Hamish" di Damasco è stato assassinato ieri a colpi di arma da fuoco vicino a casa, nel quartiere di Ruknaddin. Se la notizia fosse confermata, si tratterebbe di uno degli attacchi più clamorosi contro esponenti del regime.

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