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Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2012 alle ore 06:38.

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Non c'è solo l'esigenza prioritaria di rintuzzare la censura europea, data per quasi certa da molto tempo, a suggerire al Governo di mettere mano alla questione dell'Ici (oggi Imu) sugli enti ecclesiastici.

Nello sforzo corale per sostenere i conti pubblici il decreto salva-Italia ha gonfiato l'Imu fino a farle superare i 21 miliardi di gettito all'anno, e ha cancellato una ridda di sconti ed esenzioni (dai comodati gratuiti concessi ai parenti agli immobili storici); in questo quadro il superamento della no-tax area per gli immobili «non esclusivamente commerciali» degli enti ecclesiastici, che appare sempre più isolata nel panorama della tassa sul mattone, può offrire un gettito aggiuntivo utile anche a limare un po' i rincari sulle altre categorie.
Le stime sul punto si sono sprecate, ma la più accurata è quella prodotta a inizio 2011 dall'Ifel (l'istituto per la finanza locale dell'associazione dei Comuni) mentre ferveva il lavoro ai tavoli tecnici con il Governo per costruire l'imposta federalista.
All'epoca l'esclusione di enti ecclesiastici (e organizzazioni non lucrative di utilità sociale) dalla platea destinata a pagare la nuova tassa fece alzare del 5-6 per mille l'aliquota di riferimento, e gli esperti stimarono in 171,5 miliardi la base imponibile "sottratta" alla nuova imposta. Ipotizzando che una quota importante di questo mattone continui a rimanere esclusa (per esempio perché sottratta in tutto ad attività commerciali), con le aliquote attuali (7,6 per mille, innalzabile al 10,6 per mille dai Comuni) si può arrivare a un gettito tra i 700 milioni e il miliardo.

Il tutto senza contare i "moltiplicatori" che proprio con il "Salva-Italia" hanno ingigantito (in media del 60 per cento in virtù dell'aumento delle rendite catastali) le basi imponibili del mattone già soggetto all'Imu.
Far rientrare nell'imposta valori come questi, potrebbe permettere di abbassare del 5-7 per cento la super-tassazione attuale sul mattone senza produrre danni ai saldi di finanza pubblica.
Per raggiungere l'obiettivo occorre ritoccare un intreccio di norme su cui nessuna parte politica ha diritto di strumentalizzazioni. Le regole attuali, che non brillano per trasparenza e finiscono ora sotto la scure europea, sono infatti figlie di un doppio passaggio perfettamente bipartisan.
Il primo tassello è quello costruito dal "collegato fiscale" del 2005 (governo Berlusconi, maggioranza Fi, An, Udc e Lega) che estese agli immobili commerciali le esenzioni garantite dalla norma originaria del l'Ici (decreto legislativo 504 del 1992) al solo mattone non utilizzato per scopi profit.

Il secondo passaggio è stato costruito dal decreto Visco-Bersani (quando era presidente del Consiglio Romano Prodi, maggioranza dal l'Udeur a Rifondazione Comunista) e ha garantito la tassazione zero agli immobili utilizzati a fini "non esclusivamente commerciali". Una nozione, questa, sufficientemente imprecisa e aleatoria per far prosperare un'area di mancata tassazione, alimentata dai mancati controlli dei Comuni che certo non si sono spesi nel tentativo di definire con maggiore precisione i confini esatti degli immobili da sottoporre a tassazione.
Ora la spinta europea offre l'occasione di superare il problema; resta da capire se la base imponibile che "rientra" nella tassa alleggerirà il conto per gli altri (le case date in affitto arrivano in qualche caso a veder crescere fino al 900 per cento l'imposta se sono concesse a canone concordato), o servirà a fornire una dote extra al bilancio pubblico.

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