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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2012 alle ore 10:52.

Come recita una vecchia battuta, per capire se il budino è buono non c'è che da assaggiarlo. In altre parole, per capire quanto vale l'intesa a tre Alfano-Bersani-Casini sulle riforme istituzionali bisogna dar tempo al tempo. Se l'accordo ha una certa consistenza politica lo si vedrà nei prossimi tre-quattro mesi, quando arriverà all'esame del Parlamento. Se invece si tratta di una messinscena tattica, la tessitura non reggerà alle prime difficoltà.

Nell'attesa, il budino delle riforme suscita qualche sommessa riserva fra alcuni spiriti indipendenti il cui peso politico magari è limitato, ma che non rinunciano al piacere di dire la verità. Così Arturo Parisi osserva che il taglio dei parlamentari è già stato ridimensionato: si era partiti con il promettere una riduzione del 50 per cento, ma siamo già arrivati al 15-16 per cento (alla Camera la prospettiva è di 500-530 deputati contro gli attuali 630). Anche Marco Follini non nasconde un certo scetticismo.
Si vedrà. Non c'è dubbio, del resto, che la questione cruciale, quella che davvero interessa le segreterie politiche, riguarda la legge elettorale. E su questo punto in realtà l'intesa non è matura. Certo, la tendenza è verso un modello simil-tedesco, fondato sul proporzionale con sbarramento e sfiducia costruttiva. Ma l'architettura è ancora tutta da definire e prima di riuscirci parecchia acqua dovrà passare sotto i ponti della legislatura che si avvia alla conclusione.

A parte Casini, il quale al pari di Fini ha solo da trarre vantaggio da un modello elettorale che premierebbe i centristi, gli altri devono procedere con i piedi di piombo. Alfano e il Pdl hanno l'esigenza di chiarire in primo luogo i rapporti con la Lega, ciò che non avverrà tanto presto: ci sarà da valutare il risultato delle amministrative, per le quali i sondaggi in mano al centrodestra non sono positivi; in seguito, una volta curate le ferite, Pdl e Lega decideranno il loro futuro. Un processo doloroso che richiederà mesi.

Allo stesso modo, anche Bersani ha bisogno di aspettare l'esito del voto amministrativo: si è già visto con le primarie quanto pesi il rapporto con Vendola e magari con Di Pietro. Pian piano il quadro si chiarirà, ma il cammino non si presenta pianeggiante. Peraltro le grandi forze politiche sono alle prese con una contraddizione destinata ad acuirsi di qui alla fine dell'anno. Da un lato, la maggioranza trasversale Pdl-Pd-terzo polo che sostiene Monti è solida e non dovrebbe conoscere incrinature significative. Dall'altro, sia Alfano sia Bersani hanno bisogno di ribadire che non si tratta di una maggioranza «politica» e che non esiste aluna «grande coalizione» all'orizzonte.

Il mantra è obbligato dalle circostanze, considerando che fra poco più di un anno avremo le elezioni. E se nel frattempo non si saranno frantumati, Pdl e Pd dovranno presentarsi agli italiani con identità distinte. Entrambi però, insieme al terzo polo, garantiscono il loro sostegno convergente al governo Monti. Dopo un anno di maggioranze allargate e con l'emergenza tutt'altro che terminata, sarà difficile per loro indicare un altro presidente del Consiglio e un programma alternativo a quello che l'attuale esecutivo sta realizzando. Sarà un rebus non semplice da decifrare. Ma certo una legge proporzionale, che elimina la gabbia di ferro delle coalizioni preordinate e quindi la necessità di indicare il premier, aiuterebbe a individuare la strada.

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