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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2012 alle ore 12:10.

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Mentre la Francia è alle prese con le prossime elezioni e la Spagna con la sua recessione, il dossier Mediterraneo vede sempre più protagonista l'Italia. Ne è prova il "Vertice 5+5" tenutosi ieri a Villa Madama a Roma.

Tuttavia da un punto di vista economico, rispetto alle potenzialità, la presenza italiana è complessivamente ancora limitata e necessita di una nuova strategia. Lo evidenziano i dati di Assafrica & Mediterraneo, associazione di Confindustria, sulla presenza delle nostre imprese nel Maghreb. Per la Libia - dove l'Italia ha un insediamento più antico - si può stimare una presenza di un centinaio di aziende, oltre all'Eni che ha un ruolo strategico. In Marocco, che nell'ultimo decennio registra la più alta crescita del Pil pro-capite, le aziende italiane sono un centinaio, e prevalentemente nel settore commerciale. In Egitto sono 40. Solo in Tunisia qualcosa cambia: oltre 700 imprese, con 55mila addetti, e siamo in crescita. Il settore più presente è il tessile-abbigliamento. In Algeria invece prevalgono idrocarburi, costruzioni e lavori pubblici.

Le potenzialità dell'area sono decisamente superiori: «La parola chiave è "trasformazione" - dice il presidente di Assafrica & Mediterraneo Fausto Aquino -. La sponda Sud del Mediterraneo presenta grandi prospettive, grazie anche alla Primavera araba che ha portato una ventata di democrazia. Quest'area è da rivedere innanzitutto come mercato di sbocco. Dobbiamo pensare come possiamo essere competitivi nell'offrire loro un prodotto convincente». Sicuramente vanno rafforzate le nostre ambasciate che dovranno fare da volano per le imprese. Ma il disegno dell'associazione di Confindustria è anche quello di «rafforzare la nostra competitività puntando sulle aggregazioni e sui consorzi delle piccole imprese, perché solo così ci si presenta con una massa d'urto sufficente».

I Paesi chiave rimangono i nostri vecchi partner come Tunisia e Libia, «ma non bisogna – sottolinea Aquino – perdere d'occhio gli altri Paesi che presentano grandi opportunità come il Marocco e l'Algeria».

Un freno nell'approccio all'area è sicuramente la scarsa propensione al partenariato imprenditoriale da parte delle aziende italiane, che preferiscono tuttora l'export al radicamento sul territorio. Al contrario i Paesi del Maghreb chiedono prima di tutto investimenti per il trasferimento di know-how e sviluppo del territorio.

Uno stop alla crescita delle imprese italiane, in taluni di questi Paesi, viene però anche dalle politiche nazionali protezionistiche: ne è esempio l'Algeria, dove la partecipazione dell'investitore estero nelle joint-venture può arrivare ora solo al 49 per cento. Questo scoraggia fortemente, anche a fronte di un imponente Programma degli investimenti pubblici (286 miliardi di dollari) nel quadriennio 2010-2014.

Una spinta al rilancio dell'integrazione economica potrà venire nei prossimi anni da Businessmed, l'organizzazione che raggruppa le organizzazioni imprenditoriali dell'area. È stato infatti appena riattivato il circuito dei Country Desk nazionali per mettere in collegamento le imprese delle Confindustrie che aderiscono a Businessmed. Per l'Italia, il Country Desk è affidato ad Assafrica & Mediterraneo.

Altro punto di riferimento può essere il lavoro che si sta portando avanti all'interno del Maghreb: sabato scorso a Rabat si sono riuniti in un vertice i ministri dell'Uma (Unione Maghreb Arabo) per discutere delle politiche d'integrazione economica facendo prospettare nuovi scenari prima impensabili, se non grazie a questa primavera araba. K.M.

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